[i]If you don’t believe in yourself, nobody else will[/i]
Quattordici anni, dal 1996 al 2010, tutti giocati con la maglia dei Lakers.
Dedizione, costanza, spettacolo e oltre 25.000 punti macinati nel corso della sua lunga carriera: il suo nome, l’avrete intuito è Kobe Bryant. Di lui si conosce un po’ tutto: dal three peat con Shaq, al fattaccio nel Colorado, alla nottata magica degli 81 punti, episodi di cui si è parlato talmente tanto che ogni parola sarebbe superflua di fronte invece a semplici video commemorativi. Ma come nasce un simile campione, cosa c’è dietro una figura così rilevante nella Lega, in definitiva chi era Kobe quando in NBA regnava monsieur Jordan?
La storia del fuoriclasse gialloviola inizia in Novembre, nel lontano 1977: Pamela Cox comunica a Joe Bryant di essere incinta. La discussione ha luogo in uno dei ristoranti più “in” di Philadelphia, dove i due futuri genitori stanno gustando una prelibata bistecca, chiamata proprio Kobe. Il gioco è fatto.
Kobe Bean Bryant (non bastava la bistecca, pure il fagiolo) nasce il 23 agosto del 1978 a Phila, terzogenito della famiglia. Il padre Joe era giocatore professionista NBA, carriera conclusasi dopo 8 stagioni tra Philadelphia, San Diego Clippers, e Houston Rockets con risultati decisamente altalenanti vista la poca indole a piazzarsi in area, preferendo il tiro dalla lunga; nel 1984, a ventinove anni, decise di chiudere con l’NBA, dove ormai nessuno più credeva in lui trasferendosi in Italia con la famiglia, dove certo avrebbe potuto dire ancora la sua per qualche annetto.
Nel nostro campionato inziò a Rieti poi a Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, ovunque insomma era richiesta una valanga di punti, senza alcuna ambizione in ambito di classifica : intanto il piccolo Kobe, non potè far altro che seguire le orme del padre, iniziando con i primi tiri a canestro, ma cimentandosi se obbligato, con i suoi amici, anche nel calcio, come portiere. Ovunque Joe giocasse, il figlio prendeva palla e stupiva il pubblico: a nove anni era ancora molto gracile, ma già la gente si chiedeva dove sarebbe finito… In suo aiuto c’erano poi i nonni, che dall’America gli recapitavano settimanalmente le cassette con le partite NBA trasmesse sulle reti statunitensi che gli consentivano un primo studio dei migliori giocatori della NBA. Amava Magic e sognava LA…
E mentre il padre chiudeva la sua mediocre avventura con sempre meno atletismo e fiato, a Reggio Kobe continuava a far notizia, allenandosi con ragazzi molto più grandi e strappando applausi nel campetto dell’oratorio, tanto che una rivista popolare del tempo scriveva così: [i]”Chi per caso l’ha visto sul campetto parrocchiale di Montecavolo, ha strabuzzato gli occhi, penetrazione con due palleggi tra le gambe, palla dietro la schiena, cambio di mano in volo e canestro…”[/i], come negli USA dieci anni dopo però, il Mamba dovette lottare per ottenere un posto come titolare, ritenuto troppo magro per essere davvero uno starter e preferito come porta bottiglie. Nell’autunno del 91 (quando Magic abbandonò per curarsi dall’AIDS), anche la famiglia Bryant decise di tornare a casa.
Joe aveva chiuso il ciclo, il figlio stava per aprirne uno leggermente più grande…
Tornato a Phila KB era un ragazzo ben diverso dagli altri teenagers americani: arrivato infatti dall’Italia era abituato più a stare sui libri piuttosto che a giocare su un campo da basket, soprattutto con gente vistosamente più grossa e fisica di lui. In molti così cominciarono a considerarlo un giocatore mediocre che non avrebbe mai sfondato oltre il playground.
A Philly però Joe aveva i giusti agganci e cominciò a contattare allenatori amici sottoponendoli a filmati amatoriali italiani del figlio: la cosa andò a buon fine e Kobe si iscrisse alla High School di Lower Marion, impressionando fin da subito grazie a provini davvero ecclatanti; era una guardia di 1.88 che amava annichilire ogni singolo avversario, a cui piaceva ogni singola sfida e che pregustava già il sapore dell’impresa portando gli Aces ad un titolo dello Stato lontano ormai oltre mezzo secolo.
Incentivato sin da allora dai critici nei suoi confronti, Kobe inanellò una serie di record impressionanti, diventando in poco tempo il miglior marcatore di sempre dei licei della Pennsylvania con 2883 punti, facendo meglio di un mito della storia del gioco, l’hall of famer Wilt Camberlain. Sul campo chiuse la sua ultima stagione con 30.8 punti, 12 rimbalzi, 6.5 assist e 4 recuperi, 31 vinte-3 perse e la vittoria del titolo divisionale. Una superiorità schiacciante sugli avversari, con mezza America che avrebbe dato di tutto per averlo nel proprio college: Bryant però decise di fare un passo in più, annunciando in conferenza stampa di voler cimentarsi subito con il basket dei veri campioni: l’annuncio era sostanzialmente atteso vista l’incredibile progressione alla high school, ma nessuna guardia prima di allora aveva preso una simile scelta. Kobe poi andava bene a scuola e tutto ciò sembrava davvero solamente un suicidio…già sembrava.
L’unico a credere in lui, perlomeno nella fatidica estate 1996, fu il solo Jerry West, l’allora gm dei Lakers che fece carte false per il gioiellino di Lower Marion: le voci infatti parlavano dei Knicks interessati a Kobe e in possesso delle 3 scelte alte al primo giro per poterselo accasare al Garden. I Lakers, avevano invece la scelta numero 24 e sapevano che difficilmente Kobe sarebbe arrivato così alto, visto che tra la dieci e la venti cerano comunque parecchie squadre pronte a scommettere su di lui. West però era deciso e volle vederci meglio su quel ragazzo convocando immediatamente un workout in palestra: un 1vs1 con Eddie Jones, reduce delle final four NCAA 96 con Mississipi State. Il risultato del provino fu lampante: Kobe distrusse letteralmente il suo avversario (che addirittura si ritirò), mostrando una superiorità imbarazzante alimentata dal fatto che Jones, atletico e e creativo, veniva dal college. Mr Logo aveva visto abbastanza: la scelta di Bryant sarebbe stato, insieme all’arrivo del free agent Shaquille ONeal, l’inizio della ricostruzione di ciò che ancora restava dello Showtime anni ’80, per riportare nuovamente LA sul tetto del mondo. Nacque così l’asse Shaq-Kobe, destinato a scrivere una sostanziosa fetta di storia nel basket professionistico recente.
L’accordo per avere una scelta alta fu poi presto trovato, West si trovò sulla parola con lallora franchigia di Charlotte, gli Hornets: i Lakers avrebbero spedito nella stessa notte del draft Vlade Divac nella Carolina, in cambio di Bryant, totalmente all’oscuro della trattativa e che difatti sarebbe stato scelto comunque come 13° dagli Hornets. Lunico problema, oltre a convincere il riluttante centro slavo che si trovava bene sotto il sole di Santa Monica, sarebbe stato incrociare le dita e sperare che non scegliessero Kobe prima.
Nessuno però ebbe il coraggio di rischiare e così prima di Bryant, furono chiamati nomi davvero imbarazzanti del calibro di Lorenzen Wright, Antoine Walker, Eric Dampier, Todd Fuller e Potapenko; i soli Nets, con la 8, avevano reso pubblica la volontà di New Jersey di chiamare Bryant. Il ragazzo però, deciso a finire in California, rilasciò una secca intervista in cui comunicò che mai nella sua carriera avrebbe voluto giocare con quella casacca: Kobe dichiarò poi che si trattava solo di un bluff, ma NJ s’impaurì e a LA si spalancarono di fatto le porte per accogliere la giovane stella.
Da quella notte newyorkese la storia dei Lakers cambiò radicalmente…a scriverla intanto oggi è ancora lui, Kobe Bryant, the Black Mamba.
Michele Di Terlizzi