Boston e LA si apprestano a recitare l’ennesima puntata della sottotrama più replicata della NBA.
In attesa di vedere se i miei vecchietti di fiducia ce la faranno contro dei Lakers palesemente più forti, io come al solito mi soffermo sulle due eliminate delle finali di conference appena concluse.
[b]Orlando, la squadra più forte della lega[/b]
Blog, commentatori, analisti, tutti d’accordo che questa squadra, allenata da un signor allenatore, il miglior attacco, Carter il risolutore che mancava (che non gioca così bene da anni), il miglior centro della lega (ragazzi, non scherziamo: il miglior centro della lega è spagnolo e gioca a Hollywood, punto), un Nelson in più, 59 vittorie in regular season, due cappotti nelle prime due serie, non poteva che essere destinata alle finals.
E’ facile dirlo adesso, ma io sinceramente ho nutrito forti sospetti su questa squadra fin da inizio stagione, e non l’ho mai considerata una reale contender per il titolo (certo, il fatto di scrivere un NMTPG ogni era geologica fa sì che non ne abbia la prova documentata, ma voi fidatevi pure di me, che andate bene…).
Ma vediamo un pochino il perché…
Prima di tutto gli assenti: il turco l’estate scorsa è free agent, e decide di andarsene, soprattutto pare per il cattivo rapporto col suo coach, che tende a generare un clima misto tra l’Antigone di Sofocle e Full Metal Jacket ogni volta che i suoi entrano in campo, anche se stanno vincendo di 90 punti.
Difficilmente la cosa può essere imputata alla società o al GM, pronti a offrire il massimo a Turkoglu, e giustamente (almeno secondo me) saggi nel non minare la credibilità dell’allenatore mettendolo in dubbio perché non gradito a un giocatore. Bisogna anche ascrivere a merito della dirigenza di aver rimediato ad un problema non causato da loro nel migliore dei modi possibili: non scambierei brother Edo con Carter nemmeno se mi dessero dei soldi in cambio, ma fra quello che c’era disponibile l’estate scorsa, non si può non gridare al capolavoro per l’operato di Othis Smith (come per altro era stato eccezionale nel supplire lo scorso anno all’assenza per infortunio di Nelson con l’ottimo Alston).
Carter e Turkoglu (parlo ovviamente di quello visto lo scorso anno a Orlando, non di quello … non visto quest’anno a Toronto) non sono però lo stesso tipo di giocatore.
Il turco è sostanzialmente una point forward, che per buona parte della partita si occupa di far giocare i compagni, generando attacco soprattutto con il pick&roll, e poi quando arriva la rotazione difensiva riapre sui (numerosi) tiratori da tre liberi. Quindi tocca tanti palloni, ma ne tira molto pochi. E l’icona vivente dell’extra pass, che rifiuta un buon tiro per farne prendere ad un compagno uno ancora migliore, e questo fa salire la qualità media dei tiri dei Magic, alzando di conseguenza le percentuali (statistica fondamentale per un attacco concepito come il loro).
Vincredible invece è una shooting guard pura, ovvero un giocatore che richiede o che il gioco venga costruito appositamente per una sua uscita dietro i blocchi, oppure di avere la palla in mano da fermo, e crearsi un tiro in sospensione o una penetrazione con l’ottimo uno contro uno. Quindi uno che dà prevedibilità all’attacco, e che tende a fermare la palla anziché muoverla.
Non solo, uno che per essere efficace ha bisogno di aver spesso la palla in mano, e di prendere tanti tiri. La sera in cui segna, ti mette il trentello, e con quello compensa quello che ti toglie come fluidità offensiva. La sera però che non entra il suo tiro da fuori, lui i suoi 20 tiri se li prende lo stesso, e questo chiaramente ti affossa.
Quindi da una parte abbiamo un giocatore che non impegna, non disturba, fa giocare gli altri (anzi, li aiuta a rendere meglio), e se i suoi se la cavano bene, non chiede nemmeno di tirare. Se però le cose si mettono male, è capace di farti 10 punti nell’ultimo quarto e portare a casa la partita.
Dall’altra abbiamo invece uno che rompe i giochi e il ritmo, che deve tirare tanto, e che non è poi così determinante nei finali (certo, gli è capitato anche di risolvere qualche partita nella sua carriera, ma non è certo diventato famoso per questo…). Lo 0 su 2 ai liberi nel finale, mi sembra di gara 3, lo hanno ampiamente dimostrato.
Van Gundy gli ha largamente preferito Reddick, che non vale un terzo di Carter come giocatore, ma è oggettivamente più utile nel contesto offensivo dei Magic.
Howard è stato eroico contro i Celtics, ma ogni volta che lo vedo non riesco a non inc..rmi per lo spreco di talento fisico che questo giocatore fa ogni volta che scende in campo.
Certo, è fisicamente dominante, e lo sarà per altri 4-5 anni. Come lo era Shaq quando è entrato nella lega (sempre a Orlando, per altro). Poi però il bambinone, non certo noto per il suo morboso attaccamento alla palestra di allenamento o alla cura dei dettagli, né tantomeno dotato di un QI da astrofisico, ha imparato un’ampia gamma di movimenti spalle a canestro, oltre a una maggior padronanza di “cosa fare in difesa oltre a stoppare tutto quel che passa”, che l’hanno trasformato nel mostro che si è mangiato tre anelli consecutivi a inizio anni 2000. Howard invece appare ancora oggi smarrito quando mette piede fuori dall’area, soggetto ai troppi falli, facile preda di provocazioni (mi permetto di far notare il capolavoro psicologico di Garnett su di lui in gara 4), e in attacco meccanico, con pochi movimenti eseguiti in maniera scolastica, e nessuna possibilità di tiro da più di un metro dal canestro. Tralascio per pietà il discorso dei liberi. Insomma, un simpatico oggetto decorativo, anche utile da avere in squadra se hai già chi ti fa vincere, ma di certo non la pietra angolare su cui costruire una squadra.
Per chi volesse invece ancora sostenere che Rashard Lewis sia un vincente, e che con lui si possa costruire una squadra da titolo, io non ho cure da consigliare: ci vuole uno specialista.
In generale direi che l’idea (sempre più in voga nell’NBA) di far giocare da 4 un semi 3 con tiro da fuori per allargare il campo e velocizzare il gioco, sia condannata dai fatti: Phoenix con Marion, Atlanta con Smith, ancora Phoenix con Frye, Washington (poi Cleveland) con Jaminson, Orlando con Lewis, Miami con Beasley; un’ala forte DEVE avere un gioco in post: se poi riesce ad abbinare a questo anche il tiro da fuori, tanto meglio, ma se il tiro da fuori supplisce (o maschera) una totale carenza di gioco spalle a canestro, difficilmente si va lontano. Tanto più che, indipendentemente dall’altezza, un lungo che preferisce tirare da fuori, di solito (e i giocatori citati sopra mi sembra confermino tutti l’assunto) tende ad avere un approccio psicologico al gioco più soft, a non gradire i contatti sotto canestro, e ad essere quindi meno efficace a rimbalzo o in difesa quando c’è da menar le mani, sudare o sporcarsi. Insomma, per usare un’ardita metafora virgiliana: una banda di fighetti che si fanno forti delle loro notevoli doti tecnico/atletiche ma hanno un approccio piuttosto schizzinoso agli aspetti “rudi” del gioco.
Insomma, la mia personale opinione “tecnica” in proposito è che i 4 piccoli siano una bella cosa per alcuni momenti della partita, per cambiare il ritmo o l’inerzia della gara, ma impostarci sopra il proprio attacco base non sia proprio un’ideona.
E a proposito di note tecniche, due parole vanno spese anche per Eschilo Van Gundy. La sua gestione della finale di conference ha lasciato molto a desiderare. Nelle prime due partite ha subito i Celtics come un pugile suonato, si è accorto di botto che il suo giocattolo non andava più e non è riuscito a far niente per aggiustarlo. Avesse reagito prima, probabilmente la serie sarebbe stata più combattuta anche se, come spiegato sopra, credo che difficilmente avrebbe potuto vincerla.
Bisogna però riconoscergli il merito di aver saputo tenere le redini emotive della squadra: normalmente gli viene imputato di non saper controllare i suoi, di essere così maniacale e pessimista da non essere di aiuto, di non saper trasmettere una mentalità vincente. E invece, quando la situazione era disperata (sotto 0-3), quando tutti avrebbero gettato la spugna, lui ha saputo trovare adeguamenti tecnici (soprattutto il modo di Nelson di interpretare il P&R, andando in palleggio nel cuore dell’area che la difesa lasciava sguarnita), ma soprattutto ha trovato le chiavi per entrare nella testa dei suoi, e convincerli a giocare ancora una serie che tutti sapevano già chiusa.
Stan è oggi un allenatore da titolo?
Direi di no.
Può diventarlo?
Direi che è possibile.
Lo licenzierei, visto che con lui oggi non si vince il titolo (come fatto, per esempio, dai Pistons, che hanno licenziato un Carlise che pur aveva prodotto ottimi risultati, per prendere Brown, che li ha portati all’anello)?
No. No se è un cambiare tanto per cambiare. Gli allenatori migliori di SVG (specie in ottica titolo), che potrebbero far fare il salto di qualità, sono veramente pochi: direi Jackson, Larry Brown, magari Mc Millan (non ha ancora dimostrato niente, ma è uno su cui azzarderei una scommessa), FORSE Sloan (per quanto sembri ridicolo anche solo immaginarlo lontano da Salt Lake City), Riley, potrebbe essere in futuro Tibodeau (comunque di certo non oggi). Come detto, pochi, e difficilmente disponibili. Mi sembra quindi più sensato concedere fiducia e spazio ad un allenatore capace, con ottime basi, e che magari con 1-2 anni ad alto livello possa diventare il coach con cui vinci i titoli (poi devi sempre mettere insieme la squadra giusta, ovviamente!)
Chiudo il capito Magic (anche perché comincio a veder cadere le prime palpebre…) con l’unica vera nota positiva di questa stagione (oltre alla conferma che JJ Reddick è materiale da NBA di ottimo livello, non necessariamente da quintetto, ma comunque un elemento importante di una squadra che punta in alto):
Jameer Nelson. L’anno scorso non c’era durante i playoffs, e le buone performance di Skiptomylou mi hanno fatto erroneamente pensare che nei Magic fosse il sistema ad essere vincente, indipendentemente dagli interpreti. Avendo visto invece i playoffs 2010 di Nelson, giocati innegabilmente da All Star, viene il rimpianto di poter rigiocare la finale dello scorso anno con in campo Jameer a pieno servizio, per vedere se i Magic avrebbero potuto fare qualcosa di più.
[b]I Soli ancora fuori sul più bello[/b]
Per prima cosa due parole sulla serie.
Il 4 -2 finale, con gara 5 vinta con un tap in fortunoso allo scadere potrebbe far pensare che i Suns avessero una possibilità, mentre invece non l’hanno mai avuta. Le due vittorie interne, come ben sa chi segue i giallo viola da un po’ di tempo, sono una sorta di licenza poetica che i Lakers si concedono quando reputano la serie non interessante.
Se vincono le prime due gare in casa, e se l’avversario non li stimola agonisticamente, questa squadra di veterani un po’ pigri e supponenti tende a sedersi, e perdere (anche male) le due gare in trasferta. L’hanno fatto contro i Thunder al primo turno, ma anche lo scorso anno contro i Rockets (orfani di tutte le loro stelle), arrivati addirittura a gara 7. I ragazzi giocano, si disinteressano, si distraggono, poi tornano al lavoro per sistemare l’avversario supponente che ormai crede di essere al loro livello.
L’impressione è che il risultato inaspettato e senz’altro buono ottenuto dalla squadra non sia una solida base su cui costruire una squadra a cui manca poco per essere da titolo, ma solo una serie di circostanze fortuite che hanno reso una squadra buona, ma non certo inarrestabile, IL caso di questi ultimi 3-4 mesi.
Stoudamire quest’estate deciderà se andarsene o meno (se ne va, se ne va…), ma questo è solo una parte del problema.
E’ il sistema, come più volte ho detto, a non convincermi.
L’attacco è costruito in maniere scientifica per alzare al massimo la percentuale di tiro (soprattutto da tre), mettendo i giocatori nelle condizioni di prendere i migliori tiri possibili, e in grande quantità.
Rimane però un attacco che dipende troppo strettamente dalle percentuali (col 35% non si vince mai, col 50% si vince sempre) e queste a loro volta dipendono da fattori poco controllabili.
Oltre al notissimo e molto scientifico fattore S (sì, proprio la sfiga!), c’è un evidente fattore emotivo: se ci credo, se le cose vanno bene, se sono ottimista, se ho segnato il tiro precedente, probabilmente segnerò. Se c’è crisi, se continuo a sbagliare, se non c’è armonia, se sono teso, probabilmente sbaglierò. Ecco quindi una stagione a saliscendi, ma soprattutto una stagione segnata da frequenti strisce.
Probabilmente gli ultimi 2 eccezionali mesi di stagione (miglior squadra della lega) non erano la prova di un raggiunto equilibrio, di una chimica di squadra finalmente trovata (magari anche grazie alla definizione, almeno per il momento, del caso Amar’è), ma semplicemente una striscia positiva particolarmente lunga.
Il primo turno dei PO, a guardar bene è stato un 4-2 contro una squadra (Portland) ridotta ai minimi termini da una serie di infortuni che nemmeno il faraone ai tempi delle 7 piaghe poteva immaginare.
A questo punto, l’unico momento veramente sorprendente nella stagione dei Suns è stato il cappotto rifilato agli Spurs, situazione per la quale io sinceramente non ho spiegazioni intelligenti da fornire (e del resto vorrei trovarlo uno che mi potesse spiegare i 23 punti nel quarto quarto di gara 3 di Dragic).
Ricapitolando quindi questa potrebbe essere la situazione dei Suns per il prossimo anno:
Al posto del partente Stoudamire potrebbe anche arrivare un buon free agent nella medesima posizione, con ottimismo potremmo dire Boozer, che visti i trascorsi e le attitudini del personaggio, potrebbe gradire un posto in cui gli danno tanti soldi, ha piena liberta offensiva, statistiche gonfiate dal mago della specialità, e come bonus il fatto che il non difendere mai non sarebbe più una scelta di vita autonoma, ma quello che gli richiede il suo allenatore. Pur andando a finire al ferro in una stagione lo stesso numero di volte che Stat ci va in una partita, rimane giocatore di P&R molto educato, e buon rimbalzista.
Se invece che lui dovesse arrivare Bosh, il discorso sarebbe esattamente identico.
Il buon senso direbbe che Nash l’anno prossimo non potrà che essere in declino, ma siccome ‘sta vaccata la diciamo tutti gli anni da almeno sette anni, e ogni anno facciamo la figura dei minorati, quest’anno diciamo che lo attendo sui livelli soliti. Per il resto, Richardson è in calo fisico ma matura come esperienza, Hill dovrà giocoforza rallentare un po’, mentre la panchina più interessante della lega (Barbosa, Dragic, Dudley, Frye, Amudsen) continuerà presumibilmente a migliorare il suo impatto.
Tutto bello, ma niente che faccia vincere. Una buona stagione, sicuramente i playoffs, forse un passaggio di primo turno. Ne vale la pena?
Personalmente ritengo che questo gruppo e questo sistema di gioco, almeno a Phoenix, abbiano fatto il loro corso, sarebbe più produttivo provare a scambiare Nash (che mercato ne ha sempre), in attesa di riuscire a farlo anche con Jrich, che oggi non vuole nessuno (visto il rapporto prezzo/prestazioni), ma una volta in scadenza di contratto diverrà merce pregiata. Portare a casa qualche altro pezzo pregiato (senza necessariamente cercare subito la Super star), lasciare un anno di tempo alla giovane panchina per crescere, dandogli magari più spazio in campo, e poi provare a ricostruire, partendo da buoni giocatori, giovani, con buoni contratti e tanto spazio salariale.
Chiuso il consueto angolo del fantabasket, un’ultima drammatica conclusione a cui sono giunto seguendo questa serie; conclusione amara, ma direi ben suffragata dai fatti:
[b]I grandi Playmaker non vincono i titoli[/b]
L’idea mi ripugna, anche perché contraria a quella che secondo me è la filosofia del gioco, ovvero il gioco di squadra, a dispetto degli individualismi.
Se però prendiamo il più forte play del momento, Nash per l’appunto, ci rendiamo conto di come manchi oggettivamente qualcosa per vincere il titolo. Discorso che non cambia se andiamo ad attingere dal passato, Jason Kidd, il mio amato John Stockton, Kevin Johnson, Gary Payton (che il titolo l’ha vinto, ma in formato abbastanza figurativo), Mark Price, Mark Jackson, tutti hanno ottenuto ottimi risultati, ma nessuno ha mai vinto l’anello…
Mentre se andiamo a ripercorrere l’albo d’oro, vediamo che praticamente tutte le squadre che hanno vinto l’anello avevano tra le loro fila una stella (o al limite un secondo violino d’eccellenza) nelle posizioni di guardia o ala piccola: Jordan, Bryant, Wade, Bird, Doctor J, Drexler, Ginobili, Pierce, Baylor, Havlicek, Dumars, Frazier,…
A ben guardare, sono tutti quei giocatori che per altezza, tecnica, atletismo sono in grado di costruirsi da soli un tiro (tipicamente un jumpshot) con cui segnare allo scadere o in generale quando la squadra ha bisogno di punti che non arrivano.
I playmaker, a parte casi particolari dovuti anche a conformazioni fisiche particolari (mi vengono in mente Magic, o Oscar Robertson), sono bassi, e quindi difficilmente hanno la possibilità di prendersi un tiro “di prepotenza” ogni volta che vogliono (o che serve), a meno di ricorrere al tiro da 3, che però naturalmente garantisce peggiori percentuali. I lunghi, viceversa, oltre a tirare peggio i liberi, hanno il problema che per essere pericolosi devono ricevere vicino a canestro, non possono ricevere da una rimessa e tirare, o prendere palla direttamente nella propria metà campo: questo fa sì che per dare un buon tiro ad un lungo serva più tempo, e in casi di pressione sia difficile e rischioso far arrivare loro la palla. Gli swingmen invece non hanno questo problema, e proprio grazie a questo riescono a essere decisivi.
E’ ovvio che non sto dicendo che essere alto 1,95-2m sia condizione sufficiente per essere decisivo, poi il giocatore deve essere un campione ovviamente, ma dico che a parità di cuore (o se preferite di “attributi”) per un playmaker è molto più difficile essere decisivo.
Ci sono stati ovviamente centri dominanti, come Mikan (che però giocava in una lega in cui lui era l’unico esemplare della sua specie, e il divario tecnico era tale da permettergli di far man bassa di titoli), Russell (anche in questo caso però si parlava di una squadra enormemente più forte di tutti gli avversari), Chamberlain (che comunque non ha vinto così tanti titoli, anzi), Shaq (che però ha vinto con il supporto di Kobe o di Wade) così come ci sono stati grandi playmaker che hanno vinto il titolo, penso a Magic e Robertson (che però come detto prima erano fisicamente delle guardie), o Thomas (che però aveva Dumars), o Cousy (per il quale però valgono i discorsi fatti per Russell), ma in generale chi ha vinto aveva quasi sempre un all star in posizione 2 o 3.
Il grande play ti fa giocare bene, e magari ti fa vincere spesso di tanti punti, ma nelle partite tirate (situazione ovviamente tanto più frequente quanto più si sale di livello nei PO) difficilmente riesce a fare la differenza.
Su questa nota di allegria vi lascio, augurando al mio reparto geriatria preferito (i C’s, per chi si fosse ormai abbioccato) una vittoria in queste finali (al momento in cui scrivo non sono ancora partite).
LA è più forte tecnicamente, fisicamente, atleticamente, è equivalente per quanto riguarda esperienza e organizzazione in campo, ed è una squadra di professionisti molto motivati.
Non dovrebbe esserci storia.
I Celtics hanno un solo vero vantaggio: sanno che è l’ultimo giro, e quindi hanno una fame che i Lakers necessariamente non possono avere.
Basteranno le motivazioni di Boston a sovvertire una serie senza speranza?
La storia di questa franchigia ci dice di sì. Una sola parola li descrive: PRIDE.
Vae Victis