Cattivi, Cattivi, Cattivi! Non si fa così, signori Heat e signor James! Fare di tutto per mettere insieme una squadra da titolo!
Non come le altre 29 squadre, dove i GM lavorano perché l’importante è partecipare, e i giocatori hanno come obiettivo quello di stringere importanti rapporti di amicizia con compagni e tifosi.
Dopo la firma di Lebron per Miami (avvenuta, come ho già avuto modo di sottolineare, in maniera indelicata e incoerente tramite la nota conferenza stampa/evento dell’orrore), le altre franchigie, la stampa di mezzo mondo, diversi ex giocatori, lo stesso Stern hanno dato addosso al fenomeno da Akron e alla squadra rossonera, come se avessero compiuto un sacrilegio.
Come se 3 anni fa LA non avesse fatto lo stesso (per altro con l’aggravante della circonduzione di incapace, ovvero il GM dei Grizzlies), affiancando a Kobe (miglior 2 del campionato), Odom (miglior sesto uomo), Jackson (ritenuto all’unanimità, me escluso, uno dei migliori coach di sempre), Bynum (il miglior centro emergente, non essendo ancora pervenuto Oden), Fisher (uno dei più esperti e determinanti veterani-non star dell’NBA), aggiungendo dicevo una bazzecola, il miglior lungo dell’NBA (Pau Gasol), e non contenti, 2 anni dopo il miglior difensore (Artest). Ma forse non sono 3 All star in senso stretto.
E Boston? Pierce, Allen e Garnett? Più Rondo? O in precedenza sempre LA, con Kobe, Shaq, Malone e Payton? O gli Heat del 2006, con Wade, Shaq, Walker, Williams, Posey e Payton (che fosse a caccia disperata di un titolo, il buon Guanto?)? Gli Spurs di Duncan, Ginobili e Parker? O tornando indietro nel tempo, i Rockets di Pippen, Olajuwon e Barkely? I Celtics di Bird, Parish e McHale più Danny Ainge e Bill Walton? I Lakers di Magic, Jabbar e Worthy?
Qualcuno degli indignati per favore mi spieghi la differenza. E non facciamo i puristi, dicendo che erano scelte delle dirigenze, mentre qui hanno deciso i giocatori: come se Minnie potesse spostare Garnett senza il suo placet…
Insomma, gli Heat hanno fatto quello che molti altri in passato hanno fatto (con risultati alterni), e soprattutto quello che tutti quest’estate hanno provato a fare. La loro unica colpa è di esserci riusciti. E l’unico che potrebbe sentirsi offeso in questo giro è l’ego del signor James, costretto ad ammettere a se stesso e al mondo di essere “solo” un campione incredibile, e non IL campione di ogni epoca. Se però lui riesce a conviverci, non vedo cosa possano eccepire gli altri. L’idea delle “3 stelle per un anello” (potrebbero farci un reality), tanto vituperata, ormai fa scuola, tanto che anche NY nel suo piano A, B, C… credo che ormai siamo intorno alla versione P o Q, prevede di accoppiare Amarè con Paul e Melo. Qualsiasi discorso moraleggiante trovo sia quindi abbastanza stucchevole.
Quello che invece ha una rilevanza per noi appassionati dell’NBA nel suo complesso, come spettacolo, al di là del legame più o meno stretto con una specifica squadra, sono le possibili ripercussioni sul livello del gioco.
Pur ben lontani dalla situazione, secondo me impensabile, di un campionato dove una stessa squadra (poniamo, ad esempio, Siena) vince tutti gli anni e il dubbio riguarda se e chi riuscirà almeno a strapparle una partita, sicuramente il contesto NBA è in evoluzione, e verso il peggio. Se diventa chiaro che la soglia minima per avere ambizioni di titolo sono i 3 All Star, è evidente che tutti cercheranno di procurarsele, e che la differenza a quel punto la farà soprattutto il livello di complementarietà e affiatamento raggiungibile con i diversi terzetti. Questo però farebbe diventare il campionato molto più simile a un gioco da playstation, un NBA Manager dove il lavoro a tavolino per individuare e accaparrarsi il giusto trio, alla fine conta quasi di più di quanto avviene in campo. Ma oltre a questo aspetto, a mio parere già non molto eccitante, ce n’è uno ancor più deleterio: come noto, le squadre sono trenta, e gli All Star veri, molti meno di 90.
La matematica quindi ci insegna che probabilmente solo 7-8 squadre potranno veramente partecipare al campionato, le altre faranno da tappezzeria. Probabilmente quelle meno attraenti, città e mercati piccoli, o franchigie senza storia, o quelle con meno soldi.
3 All Star contro 0, vorrebbe dire che la maggior parte delle partite di RS, e almeno il primo turno dei PO sarebbero del tutto privi di ogni attrattiva, Zorro contro il Sergente Garcia, con il Sergente con molto poco da far vedere, e Zorro che si impegna al minimo sindacale per portare a casa il risultato. Non siamo ancora a questa situazione estrema, ma a dimostrazione che gli infermieri che bussano alla mia porta possono prendersela comoda, vorrei analizzare un attimo la situazione della stagione che sta per cominciare.
[b]Un campionato per pochi [/b]
In testa troviamo un terzetto (Miami, LA e Boston), che sono quelle che realmente possono vincere l’anello. Miami è (a meno di incidenti di percorso) ampiamente favorita, anche perché più “affamata” rispetto alle altre 2, che comunque si sono lanciate in un’opera di rafforzamento per provare a contrastare la nuova rivale: LA, già fortissima e sempre più convinta dei suoi mezzi grazie all’esperienza di 3 finali consecutive, ha aggiunto Matt Barnes, specialista difensivo che può far rifiatare Artest senza perdere in intensità, o giocargli accanto per togliere “patate bollenti” a Kobe, e Rathliff, veterano a fine carriera, che però può ancora dare alcuni minuti di qualità come stoppatore.
Boston invece riconferma la squadra dello scorso anno (gesto di fair play che personalmente ho apprezzato, al di là degli aspetti tecnici), con la sola dolorosa eccezione di Tony Allen (ovvero lo specialista difensivo sugli esterni, figura di una certa utilità contro le due compagne di danze…). La dipartita di Wallace (sempre troppo prematura!), ritirato, verrà invece colmata dai 2 O’Neal. Jermaine, perennemente rotto, potrebbe però contribuire se fatto giocare 15 minuti a sera, anche per farsi perdonare 2 stagioni imbarazzanti in Florida. Shaq invece sposta tecnicamente molto meno. Certo, non puoi escludere che ti dia una grossa mano in una o due partite di playoffs, quando l’attacco che tende a incepparsi dei C’s potrebbe buttargli dentro la palla e cercare qualche canestro d’emergenza, ma difficilmente si andrà oltre a quello. L’impressione è che la firma del centrone da Newark sia stata ricercata soprattutto per il nome, per l’esigenza di Ainge di dimostrare che non se ne stava mani in mano a guardare Riley guadagnarsi l’anello, ma stava lavorando per i suoi.
Dietro queste 3, ci sono altre 6 squadre che, per motivi diversi, non possono realmente ambire al titolo, ma almeno possono fare finta di essere contender, infastidire le 3 contender vere, e fare bella figura. Parlo di Orlando (poca chimica e poco carisma nei momenti cruciali), SanAntonio (troppo vecchi/malconci i 3 leaders, e scadenti i comprimari), Dallas (crisi d’identità ormai patologica), Utah (mancavano centimetri e attributi, hanno sostituito Boozer con Jefferson, fate voi …), Oklahoma (ancora troppo giovani, anche se al momento sono la squadra più interessante della lega, come potenziale), Chicago (in crescita con l’aggiunta di Boozer, ma c’è ancora troppo poco per sperare di fare di più).
Ancora più indietro, il grosso del gruppo, squadre che hanno come traguardo stagionale l’approdo ai PO, alcune addirittura il passaggio del primo turno, ma niente di più. Questa situazione, che di per sé sarebbe accettabile se fosse transitoria, non lo è per chi in questo limbo c’è ormai da diverse stagioni (Phoenix, Denver, Atlanta, Portland, Toronto).
Infine, e questo è l’aspetto più drammatico, una serie di squadre (un numero preoccupante, in realtà) che non solo sanno già che non faranno i playoffs, ma sono impantanate in progetti di ricostruzione, che di progettuale sembrano avere molto poco. Anno dopo anno vivacchiano, aspettano, scambiano, draftano, si rialzano, ma poi si incartano e ripartono da capo. Insomma, non c’è un presente, ma non sembra possa esserci nemmeno un futuro. NY è la capofila di questa colonna infame (e se cito Manzoni, vuol dire che sono cotto!), ma il suo titolo è insidiato da concorrenti agguerrite: NJ, che pur con l’attenuante di aver speso infinitamente meno dei cugini, ha fatto dell’essere insignificante una ragione di esistenza, e da oltre 40 anni, non ostante siano passati nel suo roster (cosa abbastanza facile, facendo stagioni terribili e quindi scegliendo sempre in alto) fior di giocatori. Unico breve momento di riscatto il biennio del primo Kidd, che ha trasformato una squadra di saltimbanchi con moderato talento a disposizione e poderosi garretti in una finalista NBA. Due volte. Poi però è rintoccata la mezzanotte, la moglie l’ha lasciato, Martin si è ritrasformato in una Zucca ed è calata la notte. I Clips, che tanto poco hanno fatto per l’NBA dal punto di vista tecnico, ma tanto invece per quello anedottico. Meritevoli come i Nets non solo di aver fatto schifo, ma di averlo fatto costantemente per tantissimi anni. Ansiosi di rientrare in questo novero (le inutili di lunga data) sono anche i Cavs, che dopo 7 anni a vivere sopra le proprie possibilità, stanno per schiantarsi di faccia contro la dura realtà di mediocrità che li ha contraddistinti per decenni. Gli spiegherà come affrontare la cosa l’equipe di psicologi che ha già aiutato i Kings, a un soffio dal dominare la lega nei primi anni 2000, e oggi tornata al ruolo ben più consono e ripetutamente provato del caso clinico. New Entry, ma che ha già conquistato i favori del pubblico (!?) è Minneapolis: i primi anni insignificanti si possono perdonare perché appena nata, poi la lunga e dolorosa agonia del Garnett in gabbia stile “vado/non vado”, fino al colpo geniale dello scambio, che ha dato vita ad anni (3 per il momento, ma le prospettive di continuare sembrano alte …) di continue e inconcludenti rivoluzioni. Meno plateali, ma comunque annettibili alla schiera di pessime senza speranza ci sono Philly, Indiana, Menphis, Golden State, Washington.
Insomma, un campionato con 3 contender vere, e le altre a far numero, chi con più onore, chi meno (e molte completamente senza …). Insomma, come il nostrano campionato di calcio. Yuppiiii.
[b]Soluzioni[/b]
Giusto per non fare il solito rompiballe che critica e basta, mi permetto di proporre una mia ipotesi di soluzione. Fattibile? Risolutiva? Ditemi voi, io comunque un pensierino (serio) ce lo farei. Personalmente ritengo che la necessità per le stelle di riunirsi in crocchi per darsi manforte derivi (almeno in parte) dalla penuria di talento presente nelle squadre, che a sua volta è figlia dell’eccessivo numero delle squadre stesse.
30 squadre, ciascuna di 15 giocatori, fanno un totale di 450, non proprio pochi.
Se è vero che i nuovi mezzi di comunicazione e di circolazione delle informazioni hanno reso più produttiva l’attività di scouting, e che l’allargamento del bacino di ricerca anche al resto del mondo e ai ragazzini (con grande gioia della NCAA) ha aumentato il numero di giocatori a disposizione, 450 è veramente un numero troppo alto per poter essere soddisfatto con giocatori del talento richiesto. Ecco allora che in ogni squadra ci sono da 4 a 8 giocatori che con l’NBA non hanno onestamente nulla a che spartire (giovinetti troppo immaturi, o non fisicamente sviluppati, giocatori fuori forma, o semplicemente privi del talento necessario), e anche tra i primi 7 è facile trovare merce … non di prima qualità. Questo, unito alle 3-4 partite a settimana fa sì che le stelle siano costrette a spremersi oltre il lecito, per sopperire alle mancanze dei compagni, e di conseguenza nelle partite “di scarso interesse” si amministrano, offrendo onestamente poco alla causa. Inoltre, essendo sempre così tirati come personale, basta un infortunio di un giocatore per creare un’emergenza, se non addirittura a compromettere una stagione.
Il mio punto di vista è molto semplice: meno squadre, significa ridistribuire fra le restanti i giocatori di pregio delle eliminate, eliminando dalla lega i giocatori non adatti e fornendo secondi o terzi violini di qualità. Jordan, Barkley, Magic, Bird, tutti bravi a criticare James, dimenticano però che la loro realtà era un po’ diversa: Jordan ha giocato per la maggior parte della carriera in una NBA di 27 squadre (fino al 95), Barkely Magic, e Bird ancora meno (ricordiamo nel 88/89 l’ultima infornata significativa di nuove franchigie). Per capirci, loro in fondo alla panchina avevano Bison Dele, McAdoo, Walton, alla peggio qualcuno che si era fatto 4 anni a giocare in un college di prestigio (e che quindi conosce il gioco e i fondamentali a menadito), e non l’africano dal nome impronunciabile che ha iniziato a giocare il mese scorso, o il diciottenne che fino all’anno scorso faceva il fenomeno contro mocciosi brufolosi alti la metà di lui. E allora un infortunio incideva meno, il cambio non era una tragedia, e se si riusciva a mantenere unito il gruppo qualche anno, si poteva veramente creare una squadra competitiva con quello che c’era.
[b]Simpatico giochino: prova pratica[/b]
Facciamo un esempio; togliamo 6 squadre di cui probabilmente non sentiremo la mancanza. Innanzitutto le due doppie (NJN e LAC), che oltretutto non brillano né per risultati, né per affluenza al palazzetto. Poi via Toronto, dove non ostante i 12 anni (non proprio indimenticabili) di permanenza dei Raptors, il pubblico continua segretamente a sperare che da un momento all’altro gli energumeni in campo tirino fuori le mazze da hockey e inizino a darsele di santa ragione. Il tutto condito da una tassazione non proprio attraente per i giocatori americani. La terza da togliere a est si può tranquillamente scegliere tra Atlanta (mercato piccolo, palazzetto non pienissimo, squadra in perenne oscillazione tra il discreto ma ininfluente, e l’imbarazzante), Cleveland (dategli tempo 2 anni, e ritorna nella mediocrità che le si addice; e scordatevi il tutto esaurito), o Charlotte (da cui una squadra è già fuggita). A ovest invece le altre due sono da scegliere fra Sacramento, Menphis e New Orleans (lo so, è cinico, ma l’uragano ormai è passato da anni, il palazzetto di nuovo vuoto, e la squadra in putrefazione).
Vi elenco, giusto come promemoria, alcuni nomi che verrebbero disponibili: Lopez, Harris, Favors, Bargnani, Calderon, Barbosa, Johnson, Horford, Smith, Crawford, Jamison, Mo Williams, Varejao, Parker, Sessions, Jackson, Diaw, Wallace, il Barone, Kaman, Griffin, Gordon, Beasley, Majo, Gay, Gasol, Randolph, Evans, Landry, Udrih, Garcia…
Facendo 2 conti, se togliamo 6 squadre, ne rimangono 24. Quindi, se dai 90 giocatori a roster delle tolte ne troviamo almeno 48 decorosi, vuol dire che possiamo togliere dalle altre squadre gli inadatti, e aggiungere 2 giocatori di pregio ciascuna, un secondo-terzo violino, o almeno un elemento da quintetto di una squadra da titolo. Si torna a 2 division (da 6 squadre) per conference, e si ristruttura il calendario: ogni squadra gioca 2 partite con quelle dell’altra conference, e 4 con quelle della stessa, per un totale di 68 partite all’anno. Significa che invece di 7 partite ogni 15gg (in media una ogni 2gg) se ne giocano 6: più energie (ci si amministra meno), più tempo per allenarsi (maggior possibilità di crescere come squadra), ogni partita conta di più (maggior impegno). Insomma, non un salto epocale, ma un passo verso una maggior cura della qualità dello spettacolo. Certo, 6 squadre in meno e meno partite implica minori guadagni da palazzetto, ma quelli televisivi e di merchandising (che sono la maggior parte) non potrebbero che beneficiare del miglior livello del gioco. Non so se economicamente starebbe in piedi, ma proiettando il trend attuale a 10 anni, potrebbe diventare una necessità per salvare lo spettacolo. Potremmo in quest’ottica ritornare all’idea del giocatore bandiera della squadra, che ci passa tutta la carriera. Perché se da un lato capisco (e giustifico) la scelta di James, Garnett e compagni, dall’altro provo un’enorme tristezza per lo Shaq di Orlando/LA/Miami/Phoenix/Cleveland/Boston e poi chissà dove altro.
Sono sicuro che l’amico David (Stern) abbia ascoltato diligentemente, preso appunti, e che dopo una bella dormita comincerà a lavorare per ridarci una NBA con meno quantità e più qualità. Sì. Oppure continuerà nel piano di espansione dell’NBA che prevede la globalizzazione e la creazione di franchigie in Europa e Cina…
Vae Victis
Carlo Torriani