All’American Airlines Center ancora non s’è finito di festeggiare il titolo 2011 che gli ospiti, fino ad allora assenti, ci mettono poco a togliere il sorriso ai superstiti delle Finals. Troppo prevedibile che gli Heat si presentassero all’appuntamento con la faccia da guerra per essere sorpresi dall’atteggiamento aggressivo fin dalla palla a due e con la solita carica agonistica che accompagna i big three fin dalla scorsa stagione. Quello che non ci si aspettava è che in due sole settimane di camp gli uomini di coach Spoelstra potessero mettere in campo delle innovazioni offensive tanto semplici quanto efficaci, con LeBron James che rompe le sue abitudini e cerca insistentemente mismatch in post basso contro una squadra che ha perso da poco l’uomo delegato a marcarlo nelle ultime finals, quel DeShawn Stevenson che, a occhio e croce, oggi dovrebbe esser stato rimpianto da Carlisle molte volte.
TEAM GAME, WON GAME
Ma sarebbe veramente troppo semplice soffermarsi sulle statistiche di LeBron e Wade (37+10+6 il primo, 26+8+6 il secondo) per non guardare il fatto che gli Heat in questa partita hanno mostrato una fluidità offensiva che per tutto l’anno scorso è mancata e che nelle Finals è stata agognata quanto un’oasi nel deserto. Circolazione di palla maestosa che, oltre a lasciare spazio alle iniziative dei fenomeni, ha permesso a un gregario come James Jones di mettere le due triple consecutive che a metà secondo quarto hanno spaccato la gara in due, facendo del resto della partita solo un attentato al record mondiale di garbage time. Del resto, come sempre in questi casi, se da una parte c’è chi sembra onnipotente dall’altra c’è chi sembra più inerte di un neonato nella guerra del Vietnam. Dallas, che oltre alla già citata perdita di Deshawn Stevenson ha lasciato per strada anche quel Tyson Chandler che era abituato a chiudere parecchie strade agli attaccanti avversari e raccattare secondi possessi. Senza il portiere ai corsari dalla Florida è riuscito veramente facile trovare accoppiamenti favorevoli e lanciare contropiedi che con quegli atleti così bravi a passare la palla non poteva che risultare efficace. Mentre LBJ dava alley-oop di tocco per Wade sulle ripartenze, Rick Carlisle ha provato a portare la sua squadra allo stesso ritmo dei rossi lanciando l’annunciatissima small ball, con una frontline composta da Nowitzki, Odom e Marion, con Jason Terry e Delonte West (uniche note positive oggi per i texani) a formare il reparto piccoli, ma Delonte per quanto animato da buone intenzioni è lì dentro da troppo poco per essere già inserito nel sistema, e Odom seppur meno estraneo ha lo stesso problema. La vincono gli Heat che hanno portato alla nuova stagione un nucleo rodato e affidabile, la perdono i Mavs che aldilà del fatto che dovevano essere quelli che festeggiano sono un cantiere apertissimo.
L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ERNESTO
Come qualcuno aveva detto in altre circostanze, se Miami non vince questo titolo “it’s going nuclear”, non che sia una novità per una squadra che convive con la pressione da quando ha scelto di annunciare a suon di dichiarazioni bomba l’arrivo di LeBron e di Bosh (limitatissimo dai falli nella circostanza), ma se i bookmakers di Las Vegas quotano 2 a 1 la loro vittoria del titolo (che per inciso credo sia sul podio delle quote più basse di sempre ad inizio stagione) un motivo ci sarà pure. Migliorata la loro quota come è migliorata la loro coesione, favoritissimi d’obbligo per la vittoria finale, ma al di là dello show di Natale messo in piedi (da valutare anche gli effettivi meriti vista la pochezza degli avversari) resta una squadra che manca di un centro affidabile e di un regista che sia una parvenza di ragionatore. Il Norris Cole messo in campo oggi ha sicuramente fatto vedere buone cose, ma tutto è sembrato fuorchè appartenente a quella specie in via di estinzione che sono ormai i playmaker. Seppur buon gregario (bravo anche lui a spingere il contropiede, mettendo in mostra notevole rapidità) è da vedere che possa tenere botta quando il gioco si farà più teso. Dallas invece il problema della pressione non l’ha mai avuto: nessuno si aspetta ripetano l’impresa, men che meno Cuban che potrebbe averci visto ancora più lungo di tutti. Le mosse di mercato fanno presagire un futuro assalto a Deron Williams o Dwight Howard, ma intanto c’è un presente con cui fare i conti che dice che Brendan Haywood come unico centro e titolare non è mai stato proponibile (oggi 4 falli e 2 palle perse in 14 minuti di utilizzo), e un Vince Carter che, pur non essendo valutabile oggi, non è mai stato considerato esattamente lo stereotipo del vincente. Presto per trarre conclusioni ovviamente, ma se questo è lo spirito con cui Dallas affronta la stagione la stagione ci metterà poco a trasformarsi da in cerca del repeat a un periodo di transizione, e stavolta Jason Terry dovrebbe impegnarsi molto per trovare un tatuaggio adatto…
MVP: LeBron James, 37 punti, 10 rimbalzi, 6 assist e 15-19 ai liberi che vuol dire grinta.
Gabriele Masulli