L’NBA su Sky di inizio settimana ci consente di dare un’occhiata a un paio di squadre, Indiana e Golden State, che difficilmente rivedremo nel corso di questo finale di stagione regolare e probabilmente con poca esposizione nei playoffs (Indiana, perchè i Warriors non ci andranno) a meno di un accoppiamento con una big della Eastern Conference.
Gli avversari delle due cenerentole – che chiamo così in omaggio alla settimana che ci prepara alla Final Four dei college – sono niente meno che Miami e Los Angeles, sponda Lakers. Si parte con una sconfitta, quella degli Heat che alla Fieldhouse (nome classico nello stato degli Hoosiers da dare alle “palestre” dove si gioca a basket) mostrano i soliti limiti e ulteriori motivi di critica, tutt’altro che positiva. La convinzione, per LeBron & C. è chiaramente quella che al momento giusto sapranno schiacciare il famoso bottone che li porterà ad un altro livello, quello necessario per far strada fino alla finale NBA e possibilmente non ripetendo poi il risultato della scorsa stagione. Questa convinzione rimane la più grande pecca della squadra di Spoelstra, che in modo molto improbabile sarà in grado di provvedere a questo upgrade una volta che i playoffs avranno inizio.
Dall’altra parte i Pacers, una squadra che non ti aspetti già a questo livello, già in grado dopo innumerevoli cambiamenti, a 12 anni ormai dalla prima (e unica) finale raggiunta con Reggie Miller e soci a guidare le danze, e Larry Bird in panchina. Il figlio di French Lick rimane il punto di collegamento, una volta spostatosi dietro la scrivania a Indianapolis, con la squadra attuale. I Pacers mostrano giovani interessantissimi e un gioco fatto di tanta energia e campo aperto, spaziature che non raggiungono il livello “europeo” dei Bucks, ad esempio, ma si avvicinano, andando comunque in quella direzione come mentalità offensiva. La Bankers Life Fieldhouse rimane uno dei posti meglio costruiti per giocare a basket e Indiana rispetta il gioco e i suoi amanti nello stato dove la pallacanestro è stata elevata a livello di religione, come recita il famoso detto:”Negli altri 49 stati si chiama pallacanestro…ma questa è l’Indiana”. 105-90 il finale a favore dei padroni di casa con Granger che ne scrive 25, nell’occasione in cui, per festeggiare l’antica ABA, le squadre scendono in campo con le divise dell’epoca. Quelle degli Heat, per una notte ribattezzati Floridians vanno di pari passo con la diciamo…sfortunata parabola di quella franchigia, storia opposta a quella dei Pacers che l’ABA la vinsero, venendo ancor oggi ricordati come una delle squadre di punta della Lega che non c’è più dopo la fusione degli anni ’70 con l’NBA.
Girando pagina cosa troviamo? Ah il reality. Sì sì, l’unico show fattosi squadra di pallacanestro (o viceversa). Più spettacolo degli Harlem Globetrotters, dato che nel caso specifico dei Lakers non si tratta di farsa, ma anzi di sceneggiatura scritta sempre in corsa, da protagonisti che sono reali giocatori professionisti, e che sanno sempre regalarci memorabili momenti da vero e proprio colossal hollywoodiano. E beh, se non loro chi, direte voi? E avete ragione.
L’Oracle Arena, dove solitamente il pubblico non ribolle ma comunque è un fattore anche se meno che in altri posti (Oklahoma City su tutti) si riempie con molta calma, causa traffico ci assicurano in telecronaca. Di certo i ritardatari arrivano in tempo per il terzo quarto, dove si consuma la rimonta dei Warriors, e l’ultimo periodo dove Bryant e Gasol, ma soprattutto World Peace (ehm) decidono che dalla non lontana Oakland bisogna tornare con una W in più. Golden State, guidata da Mark Jackson in panchina, soffre sicuramente l’assenza di Stephen Curry, ma con la sua atipicità, con i suoi quintetti piccolissimi, costringe Coach Brown a riparare anche lui su accorgimenti simili, certamente favorito da alcune scelte dei suoi lunghi. Un esempio su tutti? Dopo innumerevoli mancanze difensive in fase di aiuto che permettono a qualsiasi guardia dei Warriors di arrivare al ferro, Bynum decide addirittura di tirare da tre punti, con scarsi risultati. Immediata scelta “popovichiana” di Brown che mette a sedere Andrew e comincia a ruotare i partner di Gasol in front-line. Bryant intanto siede in panchina per più della metà dell’ultimo quarto e il suo rientro in campo coincide con il sorpasso di Golden State, guidata da Lee e soprattutto da Brandon Rush e Klay Thompson (figlio promettentissimo di quel Mychal campione NBA proprio con i Lakers come back-up di Jabbar e Worthy). I Warriors ci credono ma prima Gasol (che senza Bynum in campo prende possesso del pitturato regalando 2-3 movimenti da insegnare ai ragazzini nella vostra abituale palestra) poi Kobe con due canestri identici dal lato sinistro dell’attacco gialloviola, pareggiano e sorpassano. Finita qui? Assolutamente no. L’ex (di nome) Ron Artest, schierato da 4 per abbassare come detto il quintetto, fa un paio di capolavori difensivi portando a casa la partita per i suoi. Che altro dobbiamo aspettarci da questa soap opera in pantaloncini e canotta? Magari il finale più hollywoodiano che possa esserci: una parata per festeggiare l’ennesimo anello.
Andrea Pontremoli
@A_P_Official