Il discorso giovani ormai è una questione annosa che, puntualmente, ogni anno si ripresenta. E, come sempre, spacca in due l’opinione: chi ritiene che i giovani siano un bene prezioso e vadano fatti giocare a prescindere, chi invece sostiene che i minuti siano da guadagnare indipendentemente da quello che dice la carta d’identità. Il tutto tra le proteste dei proprietari, che tendono a spingere per l’apertura totale del mercato, così da poter acquisire giocatori a prezzi più bassi, ma, probabilmente a discapito dei suddetti giovani, che, di contro, in proporzione costano molto di più di uno straniero. Il tutto mentre la nostra nazionale Under 20 è Campione d’Europa, ma il suo stesso coach, Pino Sacripanti, ammette che in Italia manca un sistema che porta i ragazzi di 19/20 anni, che in media hanno una qualità elevata o comunque similare ai pari età europei, a compiere quel passo che li trasforma da ottime promesse a veri giocatori che possano incidere e fare la differenza tra i “grandi”. Insomma, il solito polverone da cui è difficile uscire puliti.
Sul discorso, allora, andiamo a vedere come si sono orientate le squadre di Serie A quest’anno, stilando la classifica di “gioventù” per ogni squadra, ponderando l’età dei giocatori per i minuti giocati, così, in sostanza, da dare poco peso, nel calcolo, a quei giocatori molto giovani che magari sono sempre in panchina ma giocano poco o, più spesso, niente, e al contempo dando un valore più preciso all’età dell’atleta sul quale pesa anche il totale dei minuti spesi in campo.
La classifica fornisce indicazioni contrastanti. Il primato è saldamente nelle mani della Granarolo Bologna con soli 25,4 anni di età media (contro i 27,4 medi del campionato in generale), dato che pone i bianconeri, tra l’altro, nelle prime 10 squadre più giovani d’Europa. Abbastanza distanziata, ma comunque seconda, arriva Pesaro, a quota 26,2. E fa abbastanza specie vedere come le prime due squadre per gioventù siano rispettivamente 13esima e ultima in campionato. Se non fosse che, al terzo e al quarto posto, troviamo Cantù e Milano, che, al contrario, sono grandi protagoniste del campionato e nelle Coppe europee.
Tra il sesto e il tredicesimo posto, poi, un gruppone di squadre che hanno un’età media vicina a quella generale del campionato, mentre pagano buoni dividendi le scelte di puntare su giocatori esperti di Reggio Emilia e Sassari.
Insomma, la classifica sembrerebbe non fare altro che aumentare la confusione sulla questione giovani. Bologna e Pesaro per ora pagano le conseguenze di questa scelta, Cantù e Milano viaggiano a mille invece. La verità, come al solito, sta nel mezzo. Puntare solo e unicamente nei giovani difficilmente può restituire risultati positivi. E’ necessario costruire attorno loro un sistema di valore, come succede a Cantù, dove, a fianco del solito Aradori, hanno responsabilità importanti Gentile (1989), Rullo (1990) e crescono anche i minuti di Abbass (1993), uno dei Campioni d’Europa Under 20. Ma attorno c’è un sistema che funziona alla perfezione, con stranieri che si accollano le responsabilità maggiori (assieme al predetto Aradori), permettendo ai ragazzi italiani di fare il proprio con più leggerezza. L’opposto di quanto accaduto a Pesaro, dove, più per necessità che per volontà, si è dovuto provare a formare un gruppo con americani contemporaneamente giovani (Anosike ’91, Trasolini e Tunrer ’90) e responsabilizzati al massimo per cercare di mettere le giocate valide per la salvezza. In questa situazione non certo ideale ne ha fatto le spese Amici (22 anni) che, nonostante avesse avuto minuti a disposizione, ha preferito scendere di categoria per giocare di più.
Qui entrerebbe in gioco anche il discorso della volontà dei ragazzi di mettersi in gioco e migliorarsi per guadagnare più spazio in campo. Gli esempi diametralmente opposti potrebbero essere mille: da un Niccolò Melli, che dopo anni in cui ha un po’ deluso le grandi aspettative che c’erano su di lui, finalmente sta trovando la sua dimensione come protagonista, non solo sui parquet nostrani, a un Matteo Imbrò che, al secondo anno in cabina di regia alla Virtus Bologna, non sta mostrando i progressi tanto attesi e, anzi, vive un momento di regressione.
Insomma, la questione rimane viva e d’interesse, ma forse per dirimerla definitivamente servirebbe un cambio di cultura, laddove una o due stagioni di risultati non eccelsi possano essere tollerati da società e ambiente in nome della crescita del proprio patrimonio giocatori. Molto più semplice a dirsi che a farsi.
Nicolò Fiumi