Il suono di una melodia dal sapore ancestrale, scandita dal ritmo di un tamburo, la voce di Youssou N’Dour che nitida e poderosa si staglia, dolce e al tempo stesso penetrante, che non rinnega il suo passato e guarda al futuro, a un domani che, sette secondi dopo, è già ieri. Era Seven seconds, una delle celebri sonate del mondo africano che hanno spaziato i confini continentali e sono divenute anche commerciali, pur restando uniche nel loro genere, e questa canzone può farci da colonna sonora per questa storia che ha qualcosa di magico al suo interno.
Si intrecciano da un lato una complessità strutturale “Il Castello dei destini incrociati” di Italo Calvino, dall’altro una qual certa magia, non di quelle che attirano il pubblico come il coniglio che esce dal cilindro per ottenere agli applausi, ma l’immagine è più sfocata come quella di uno sciamano, che evoca il fuoco e vuole garantire protezione.
Pensando all’Africa la prima cosa che ci viene in mente è la povertà, e colpisce ancora oggi vedere video (globalmente diffusi) in cui bambini scoprono con emozione e gioia l’acqua potabile, ma non è solo questo. La storia ce lo insegna, ma forse ci ricorda che proprio laddove sembra essere nata la vita (Lucy in the sky sembrava confermarlo fino alle ultime scoperte) c’è sempre stato sfruttamento. E le grandi civiltà del passato han ceduto il posto a migliaia di schiavi, passati per le forche caudine delle colonie, che più che costruire hanno razziato e distrutto. Il sostrato socio culturale dell’Africa vive di sport, vissuto come forma di aggregazione, come stimolo a voler portare il proprio nome sulla divisa nazionale, sventolare la propria bandiera, segnare un punto fermo sul mappamondo geografico: indipendenza e riconoscimento. E le caratteristiche di un popolo a lungo dominato non possono che essere quelle delle perseveranza e della resistenza, ed ecco spiegato forse perchè la maratona, il mezzo fondo e le lunghe distanze sono tutte a vantaggio dei ragazzi del continente nero, anche se spesso abilmente portati in altri lidi.
Gli sport di squadra sono qualcosa di ancora diverso. Ci sono gli stati più ricchi che possono permettersi centri di formazione a livello europeo o quasi, cui si oppongono piccole realtà “autoctone”, che, per quel che concerne il basket, non saranno certo quelle di “Che Aria tira lassù” (film del 1993 con Kevin Bacon), ma non sono molto lontane. Per questo quando squadre africane vanno al mondiale, di qualsiasi sport, non è solo il culto dl gioco che spinge, ma è una nazione intera, che si ferma, magari radunati intorno a un televisore, che non sarà ultrapiatto, e che sostiene i suoi ragazzi. Oggi l’orario è quello del pranzo in Italia, si stacca dalla routine e ci si gusta due ore di pallacanestro: Croazia contro Senegal, la gara appare scontata, ma la si guarda, con tranquillità, magari sperando di scoprire qualche talento tra gli sconosciuti leoni in maglia verde. Dovrebbe essere tutto scontato.
Due ore dopo il laptop è già inondato di spunti su una storia che definire incredibile è dir poco. Ed è qui che comincia la nostra storia. L’incipit lo lasciamo a Italo Calvino: “C’è un modo colpevole di abitare la città: accettare le condizioni della bestia feroce dandogli in pasto i nostri figli. C’è un modo colpevole di abitare la solitudine: credersi tranquillo perché la bestia feroce è resa inoffensiva da una spina nella zampa. L’eroe della storia è colui che nella città punta la lancia nella gola del drago, e nella solitudine tiene con sé il leone nel pieno delle sue forze, accettandolo come custode e genio domestico, ma senza nascondersi la sua natura di belva” (Il Castello dei destini incrociati). Ed è così che 12 ragazzi, tra i quali fatta eccezione per Dieng tutti sono sconosciuti al grande pubblico, vincono una partita storica, 77-75, contro una Croazia che ha fatto il più grave errore su un campo: credere di aver già vinto ancor prima delle palla a due.
Come un fuoco e una qual certa premonizione avevano regalato una vittoria contro Portorico, che era storica perchè era dal 1998 che i leoni non vincevano una gara extracontinentale, la sfida alla Croazia ha del secolare, da annotare negli annali. E’ la vittoria di una squadra africana contro una europea che schiera la sua miglior formazione possibile. e la storia qui prende forma in ogni suo dettaglio. C’è Gorgui Dieng, impossibile non partire da lui, il giocatore rappresentativo, quello che gioca in Nba, quello che guida i compagni. Un ragazzo semplice, che appena arrivato a Louisville, driblando con eleganza i commenti che lo volevano quasi come il nuovo Shaq, recitava che è tutta questione di fondamentali, di partire dalle basi per costruire il proprio io, la propria felicità, passo dopo passo, avendo sempre un sorriso di fronte a ogni cosa. Queste, forse, le motivazioni che portarono quella vecchia volpe di Rick Pitino a sceglierlo, proteggerlo dai detrattori del suo jump corto e dei suoi liberi “mattonati” e che produssero un centro dominante che contribuì alla vittoria dei Cardinals. Il salto in Nba, non facile, fortifica il suo carattere, gli regala una nuova dimensione, che oggi risplende. Contro la Croazia porta palla, aiuta, sgomita, fa quello che deve a rimbalzo, si prende i tiri che deve. Travolge un bimbo a bordo campo a rimbalzo, evitandolo a rischio del suo ginocchio, e la prima cosa è avere una carezza per lui. A fine gara è lì ancora, commosso, ma col suo sorriso, consapevole di aver scritto un pezzo di storia che mai più sarà dimenticato. Doma chiunque in vernice e non solo, chiudendo con 27 punti, 8 rimbalzi e 3 assist. Sontuoso.
Seguiamo l’ordine dei realizzatori e arriviamo al play di questo gruppo, Dalmeida. Ora sfidando quelli che se lo ricordavano in Pro A francese, il numero 5 in maglia gialloverde sembra uscito da un libro di storia per le sue follie alla Bogues. Baricentro basso, fisico esile, esplosività nelle gambe e follia allo stato puro. Lo sciamano lo benedice, anzi no, gioca a Lourdes, in terza serie francese, il posto è mistico e lui lo è ancor di più in campo, al cospetto di uno come Ukic che ha visto l’Nba o di avversari più grossi. E’ il folletto in una squadra di giganti che vola lì dove osano le aquile, ma lui è il play e li tiene sempre nei ranghi, segnando 3 triple importanti, ma soprattutto prendendosi nel finale la responsabilità di andare a tiare i liberi. Per lui ci sono tante lacrime di commozione alla fine, nonchè 18 punti e 5 assist.
Poi c’è Faye. Uno di quelli che sono stati in America, prima a Georgia Tech, poi a Southern Methodist University, dove oggi allena Larry Brown. Ha tante basi il ragazzo e se i leoni avevano già battuto Portorico molti meriti andavano a lui iscritti, ma la sua caratteristica è di essere un gregario di lusso. Sulla salita finale, quando i blitz su Dieng sono quelli del football americano e si è in astinenza, lui si fa trovare pronto, col suo jump dalla media distanza, con le sue accelerazioni e le sue mani lunghe. E quando la Croazia ha l’inerzia va sinistra stacca poco dopo la lunetta e infila una bimane in faccia a Zoric che è un urlo di rabbia. Gioca in Grecia, ha buoni numeri, ma il Panelefsiniakos non è certo l’Olympiakos o il Pao. Nei momenti chiave c’è sempre, per lui sono 11, 6 rimbalzi e 3 assist e quando esce per falli diventa la longa manus del suo coach, predicando calma anche quando i compagni stanno già festeggiando.
Le storie sarebbero altre, dallo “svizzero” Bacji, alle stoppate di N’Diaye che mulina le braccia e fa sentire a uno come Ante Tomic il peso della sua freschezza, oppure il collegiale Ndour, un “cavallo pazzo” che non avrà segnato ma era il primo a scattare su ogni pallone quasi fosse il solito leone sulla gazzella di turno. E poi c’è lui. Cheick Sarr, professore di educazione fisica, che ha cresciuto questi ragazzi. Predica pallacanestro essenziale, blocchi e riblocchi, palla in post alto contro la zona, pazienza e tanta energia, specie a rimbalzo. Non perde mai le staffe, non accenna a una protesta, parla con gli occhi, non con la lavagna, su cui fa strani segni. La sua formula funziona e a meno di miracoli filippini ha portato una squadra africana al secondo turno del mondiale, qualcosa di incredibile. Con un gruppo di ragazzi che volano sopra il ferro, che si divertono e sorridono, che hanno qualcosa in più e che non vogliono essere solo la cenerentola di passaggio. Il posto nella storia ce lo si deve guadagnare e, ritornando al caro amico di questa nazione, Youssou N’Dour, “Non è questione di un secondo, ne sono già trascorsi sette” e la gara è andata, consegnata agli annali e nelle memorie di qualche giornalista. Chissà cosa staranno facendo i ragazzi, che domani avranno day off, per le vie spagnole. Ce li si può immaginare cantare, suonare le percussioni e sorridere, e questa sarebbe la più bella fotografia del mondiale.
Dura scegliere qualcosa con cui terminare questa storia. Mi aiuta John Nash, o meglio l’interpretazione del “gladiatore” Russell Crowe in ‘ A Beautiful Mind ‘.
” […] Adam Smith ha detto che il miglior risultato si ottiene quando ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé, giusto? Incompleto. Incompleto! Perché il miglior risultato si ottiene… quando ogni componente del gruppo farà ciò che è meglio per sé, e per il gruppo! Dinamiche dominanti, signori. Dinamiche dominanti! Adam Smith… si sbagliava!”
Domenico Landolfo