Dietro ogni storia ci sono leggende, personaggi, decisioni, narrazioni e casualità per chi ci crede, che a volte sono incredibili. Come nasce un nome di un’azienda che diventa vincente nel mondo? Come nasce un marchio famosissimo che tutti riconoscono subito? Come nascono – per venire a noi – i loghi delle squadre dell’NBA? Sono sempre stati quelli che vediamo? Sapete che dietro alcuni di questi ci sono decisioni o prese di posizione di giocatori ed allenatori?
Uno dei luoghi dove trovare al meglio questo tipo di spiegazioni è Ultimo Uomo e difatti Valerio Coletta lo ha fatto scrivendo “I 12 loghi più strani e fighi della storia NBA”.
Ecco l’inizio di questo articolo delizioso
“Non è colpa mia, ma gli sport americani si prestano al feticismo. Questo perché non si riducono puramente al gioco, ma si costruiscono attorno un apparato immaginifico enorme. I colori, le maglie, i modelli di scarpe, le mascotte, i soprannomi, i tatuaggi: tutto questo e molto altro hanno una propria storia, una propria vita, un’infinità di sfaccettature e trasformazioni, tanto che per tutti gli appassionati diventano oggetto di culto febbrile e spasmodico.
La piccola antologia che sto per proporvi riguarda i loghi delle squadre di basket NBA e pre-NBA, forse l’elemento più iconico di questo sport dopo l’immagine degli atleti stessi. Inoltre, la forza dei nomi delle squadre americane e quindi delle immagini con cui si rappresentano, sta nel fatto che non si prendono troppo sul serio. È un retaggio antico, legato alle squadre scolastiche, per cui abbiamo i Tori di Chicago contro i Pellicani di New Orleans e così via. Ho fatto una selezione dei loghi più belli e strani che sono apparsi sul palcoscenico del basket USA, cercando di descriverli o di trarne una qualche lezione recondita che forse ci ho visto solo io. Eccoli:
Denver Nuggets (1981-1993)
L’idea era di ricostruire lo skyline di Denver avvolto dai riflessi arcobaleno; il risultato è una gigantesca partita di tetris psichedelica davanti alle montagne. Il famoso e iconico “Tetris logo”, così chiamato in NBA, è uno di quegli esempi di design così brutto e strano che fa subito il giro e diventa tenero e immortale. Pazzesco che si sia fatto praticamente tutti gli anni Ottanta e sia arrivato fino al secondo anno di Dikembe Mutombo in NBA. Capite anche voi che conciato così, il famoso “Not in my house” non avrebbe funzionato. Poi ultimamente, una trentina d’anni dopo, viene riproposto con grande piacere.”
E qui c’è il link all’articolo completo, buona lettura