Quando, a settembre, le inchieste della FBI hanno portato all’arresto di dieci persone per corruzione, tra agenti ed allenatori universitari, ed all’incriminazione di molte altre, coinvolgendo nomi di grido (Rick Pitino su tutti, subito licenziato da head coach di Luisville) e multinazionali (Adidas, fresco sponsor multimilionario del medesimo college), si è avuta la sensazione che venisse improvvisamente scoperchiato il vaso di Pandora. Il problema del reclutamento, senza troppi scrupoli, dei migliori talenti da parte delle università più prestigiose e, quindi, anche economicamente più “dotate” è vecchio come il basket americano ed ha ispirato letteratura e cinema (basti ricordare lo splendido Basta vincere,1994, con Nick Nolte). Le cause vengono da molto lontano e gli scandali nello sport universitario non sono certo esclusiva della palla a spicchi, ma, certo, nel basket il problema è amplificato dal fato che la galassia NCAA rappresenta, di fatto, la via d’accesso pressoché monopolistica al basket pro. Nel baseball, ad esempio, le franchigie hanno la possibilità di reclutare direttamente dalle high school, facendo affidamento, poi, sul vasto farm system di cui sono dotate, ai vari livelli (dalla singola A alla tripla A), su tutto il territorio americano. Nel football vige la regola dell’obbligatorietà di almeno tre anni di college, in modo da garantire una formazione atletica, tecnica, ma anche intellettuale, adeguata per il futuro, quale che esso sia.
Nel basket mancano l’uno e l’altro “paracadute” e, probabilmente, la cosa è stata aggravata dall’introduzione, ad opera del precedente Commissioner David Stern, nel 2005, della one-and-done rule, ovvero la regola che impone il raggiungimento dei 19 anni o la frequentazione di almeno un anno di college, prima di rendersi eleggibili per il draft. Ovviamente ciò ha reso ancor più ineludibile il passaggio al college per i migliori talenti scolastici ed ha ulteriormente infoltito il sottobosco di stratagemmi messi in atto dalle università, soprattutto le più prestigiose cestisticamente, per accaparrarsi i migliori prospetti. Tra questi la corruzione, attraverso tangenti, sponsorizzazioni, affiliazione ad agenzie di procuratori a loro volta legati con il mondo della NBA.
Adam Silver, riformatore senza paura che ha sempre dimostrato di sapere e volere affrontare di petto tutte le problematiche della propria Lega, ha già mostrato pubblicamente il proprio disappunto per questa regola e sembrerebbe orientato ad intervenire cercando di disincentivare l’accesso obbligato al college al solo scopo di giocarsi la carta NBA, provando a fornire alternative per la crescita sportiva dei ragazzi.
Siamo ancora alla fase preliminare, quella delle indiscrezioni trapelate da collaboratori vicini al Commissioner (fonte ESPN), ma sembrerebbe siano in corso incontri con i rappresentanti legali dell’associazione dei giocatori (da sempre contraria alla regola del one-and-done) e la presidente della commissione istituita dalla NCAA per indagare e porre un freno agli scandali (nientemeno che l’ex Segretaria di Stato Condoleezza Rice) per concordare una soluzione. Si aspetterebbe l’esito dei lavori della commissione, prima di elaborare una proposta di riforma concreta.
Si parla di abolire la norma in questione, permettendo agli atleti che escono dal college di tentare da subito la scalata al mondo pro e di creare una sorta di categoria “primavera”, dedicata appositamente allo scopo da ciascuna franchigia. Un’ipotesi molto intrigante sarebbe quella di aprire le porte della G-League ai talenti diciottenni. La Lega di sviluppo, fresca della nuova denominazione (dovuta allo sponsor Gatorade: fino allo scorso anno si chiamava Development League, o D-League) ha compiuto passi da gigante, con l’innalzamento dei salari, la creazione dei two-way contract e l’ampliamento del numero di franchigie partecipanti (siamo a 26, mancano all’appello solo quattro franchigie, ma due di queste hanno già annunciato la creazione di una affiliata per il prossimo futuro) ed è già divenuta concorrenziale, rispetto ai campionati esteri, per attrarre e reclutare giocatori di interesse per la Lega maggiore. Il marketing, lo scouting e l’esposizione mediatica sono cresciuti vertiginosamente, parallelamente con la qualità tecnica del prodotto. Potrebbe essere una strada percorribile: una soluzione pragmatica che offrisse ai giovani atleti una valida alternativa alla formazione ed alla vetrina del college (da riservare alla reale motivazione culturale) inflazionerebbe il ruolo dei college disincentivando i metodi di reclutamento poco ortodossi.
La NBA, in costante miglioramento di immagine grazie al lavoro intelligente e certosino di Adam Silver, finirebbe per ribaltare a proprio favore la situazione, non solo mettendosi al riparo dagli schizzi del fango universitario, ma, addirittura, proponendosi come la soluzione! Stay tuned…