Rieccoci, per assaporare insieme fatti e curiosità della Lega più bella del mondo, dire la nostra e scambiare qualche opinione, in una fase della stagione convulsa e piena di sorprese.
La pausa dell’All Star Game è chiusa, con il solito lascito di luci, ombre e sterili polemiche su quello che da molti è ormai ritenuto un vuoto contenitore di degenerazioni del basket. Da molti, ma non da noi di #AllAroundnet. Vi racconteremo le sensazioni e vi diremo la nostra su questo evento che tutto il resto del mondo ha voluto copiare ma che, oggi, sembra vivere la sua fase di stanca, per poi rituffarci nel clima della regular season registrando ciò che sta accadendo.
Registrando, sì, più che analizzando, perché davvero stentiamo a capirci qualcosa! È quel momento dell’anno in cui tutti si dichiarano pronti per lo sprint finale lancia in resta, eppure tanti sembrano perdere la trebisonda di fronte alle prime difficoltà e le partite non vanno come tutti si aspetterebbero. Vedremo come e ci faremo la nostra idea.
Non sparate sull’ASG! Molto rapidamente ed in sintesi: per quanto consta gli eventi di contorno, forse i più accattivanti, Jayson Tatum ha portato a casa lo Skills Challenge nel modo più folle e spettacolare, anticipando l’avversario, in finale, con una tripla da quasi metà campo. Hamidou Diallo ha trionfato nello Slam Dunk Contest galoppando in aria oltre due metri sopra il parquet, il tanto che è bastato per saltare Shaq (non proprio un nanerottolo) e schiacciare la palla e l’intero avambraccio nel canestro, restando sospeso dal gomito: è il nuovo status symbol, per specialisti e amanti del genere, per dimostrare quanto oltre il ferro si sia riusciti a volare. Joe Harris ha consacrato sé stesso come il fuciliere numero uno al mondo, sconfiggendo il maestro Steph Curry nel Three Point Contest, con una duplice prova sontuosa, scaricando l’intera batteria di moneyball dall’angolo destro, così, come mandasse giù cinque sorsi d’acqua. Tre successi strameritati per tre campioni con status sociali differenti: il fuoriclasse acclamato e conclamato (Tatum), il ragazzino affamato (Diallo) e l’uomo venuto dal nulla (Harris). Tutto molto americano, tutto molto bello.
Nelle due partite in programma, come sempre, poco da dire o da concedere all’agonismo e alla difesa: solo tanto spettacolo e tanta mostra di talento Kyle Kuzma MVP al Rising Stars Challenge, vinto da Team USA; il solito Kevin Durant eletto migliore alla parata delle stelle, evento clou della settimana, che ha visto il trionfo di Team LeBron grazie ai 31 punti del suo compagno-rivale n.35.
Ma è soprattutto su queste partite che si abbatte, con noiosa cadenza annuale, puntuale come le polemiche sul Festival di Sanremo, la mannaia del più becero luogocomunismo: aboliamo l’All Star Game, stravolgiamolo, diamogli una parvenza competitiva, così è inutile, non è basket, ecc.
Non che la critica non abbia fondamento, anzi…tant’è che, nel corrispettivo della Major League, ad esempio, si sono inventati, come premio, il fattore campo favorevole, nelle World Series, per la squadra appartenente alla Lega che si aggiudica l’ASG.
Tuttavia, prima di maledire la settimana della kermesse perché va ad interrompere sul più bello la suspense della stagione, sarebbe il caso anche di snocciolare le mille ragioni d’essere dell’ASG, tutt’altro che venute meno, soprattutto per i giocatori, ma anche per la Lega stessa e per i tifosi occasionali.
La parata delle stelle rappresenta ancora l’unica occasione per vedere le stelle del firmamento americano in campo tutte insieme per divertire e divertirsi, per acquisire lo status ufficiale di All Star (con le ripercussioni anche contrattuali del caso), confrontarsi tra loro. E pazienza, se viene meno lo spirito competitivo di questo meraviglioso sport: depurato delle scorie agonistiche, esso assurge a puro spettacolo, sfoggia il suo sguardo ammaliante, genera un richiamo mediatico e pubblicitario senza eguali e tutto questo lo fa con basso rischio di infortuni.
Se, per una notte o due, il tifoso assiduo può lasciare le sigarette nella tasca del giubbino e dedicarsi ai pop corn, ne guadagnerà in salute: poi discutiamo, magari, anche su come renderlo più affascinante, ma non deturpiamone lo spirito!
E si ricomincia… Che succede alla ripresa? Che le gerarchie restano più o meno le stesse ma, sotto le apparentemente immote ceneri agonistiche, cova il regno del caos! A Est, i Bucks vanno come un treno, con Toronto e poco altro a ruota, mentre i Celtics sono in caduta libera e cominciano a mostrare il fianco a qualche spaccatura (ascoltate le dichiarazioni di Marcus Smart!). E, mentre Nets e Hornets vivono un fisiologico calo di tensione, si rifanno sotto Orlando e, soprattutto, Detroit, che pare aver trovato, finalmente, la strada per sprigionare tutto il devastante potenziale della propria frontline! Miami, data per spacciata e ai margini della zona playoff, ha, invece, ancora l’energia per alzare la testa proprio contro i campioni in carica (clamoroso il buzzer di Wade: la classe non è acqua, ma neppure anagrafe…) ma la vera novità di questa fase è la resurrezione dei derelitti Knicks (due vittorie consecutive!) e, soprattutto, dei Bulls, tre vittorie nelle ultime quattro e un gioco che, improvvisamente, pare dispiegarsi, sbocciare come in una primavera anticipata esprimendo tutto l’immenso potenziale dei Lavine e Markkanen di turno! Chiedere ai Celtics, asfaltati nella città del vento. Nelle ultime dieci Boston guarda dal basso verso l’alto il record di Chicago…
E, se ancora il caos vi pare poco, se ancora tante sorprese non vi bastassero, aspettate di sentire cosa accade a Ovest: i Rockets le buscano dai Lakers e LBJ si ringalluzzisce, preannunciando al mondo l’attivazione anticipata della modalità playoff (ma cos’è, l’ammissione di non aver dato il massimo finora? Il segreto di Pulcinella?). Poi, però, i Rockets restano senza Harden e vanno ad espugnare l’Oracle Arena (ancora: ma i Warriors non erano quasi imbattibili?), mentre i Lakers vengono umiliati da NOLA (senza Davis!) e maltrattati anche a Memphis, con un LeBron che, senza neppure lasciare che si spegnesse l’eco delle roboanti dichiarazioni di cui sopra, mostra preoccupanti segni di insofferenza verso i compagni, dentro e fuori dal campo, e si dimentica di difendere.
Meanwile… I Suns vincono a Miami, dove, due giorni dopo, perderanno i campioni in carica, gli splendidi Spurs di un paio di settimane fa vengono presi a schiaffi sonoramente nella Grande Mela, al di qua e al di là del ponte e…insomma, facciamo davvero fatica a mettere ordine tra le idee ed a capire cosa diavolo stia accadendo.
Sarcasmo e provocazioni a parte, la nostra impressione è che, invece, stiamo attraversando una vera e propria Terra di Mezzo, quello spaziotempo senza padroni in cui tutto pu accadere, perché chi di dovere non ha ancora inserito il turbo per lo sprint decisivo, mentre le squadre dedite al tanking, assicuratesi le prime (ultime) 4 o 5 postazioni, stanno, invece, iniziando a giocare in scioltezza, esaltando le qualità dei rispettivi prospetti.
Tutto sommato, quest’anno, arrivare ultimi o terzultimi non sposta di un’acca le possibilità di chiamare Zion o Barrett al prossimo draft (a proposito: dopo esserci stropicciati gli occhi per le sue prodezze atletiche, ecco proprio Williamson stramazzare al suolo con la scarpa aperta in due e il ginocchio distorto! Scene di panico avvistate da Atlanta a Phoenix!!).
Entra in gioco, infatti, a partire dalla prossima estate, la riforma della lottery pensata e voluta da Adam Silver. Noi, in tempi non sospetti, l’avevamo accolta con moderato entusiasmo, come si fa con una svolta nella direzione giusta, ma ancora insufficiente per debellare la peste del tanking.
E se ci fossimo sbagliati? Se questa non fosse solo l’ultima neve di primavera, prima di cedere il proscenio agli attori protagonisti? Se le squadre in coda seguitassero a giocare esaltando le doti dei giovani talenti già in dotazione? Noi continuiamo a dubitarne, ma, certo, sarebbe la più bella e intrigante sorpresa della stagione…
Stay tuned!