Qualche crepa aveva iniziato ad incrinare la marmorea fiducia dei Brooklyn Nets fin dallo scorso mensile; il febbraio bianconero conferma la diagnosi: il giocattolo meraviglioso, la gioiosa macchina da guerra della striscia 20-6 a cavallo tra i due anni solari, si è rotto e i ragazzi di Atkinson, dismesse le vesti dei supereroi sicuri e fieri che ne hanno mandati ben quattro all’ASG, sono tornati a mostrare la faccia dell’insicurezza, delle difese tremebonde, del ricorso disperato allo smallball per trovare le energie necessarie, ancorché insufficienti, per evitare le più sonore batoste.
Il mese di Febbraio e l’All-Star Game
Dispiace rimarcare il lato oscuro del mese e non, invece, mettere in primo piano la faccia radiosa del pianeta bianconero, quella delle stelle nascenti che ha inorgoglito franchigia e popolo bianconero nella kermesse che quest’anno si è tenuta in casa-Jordan, a Charlotte. Dispiace, ma il dovere di cronaca sportiva si sposa con le sensazioni trasmesse di notte, molto diverse, fin troppo, da quelle misteriose e gaudiose regalate da Russell & co. fino ad un mese fa. Se, poi, volessimo dare continuità alla nostra rubrica, dovremmo dire che della esaltante vittoria contro Denver, ultimo raggio di sole prima del gelo di febbraio, abbiamo già parlato nel numero precedente, uscito “lungo” per attendere, invano, novità alla deadline.
La (breve) cronaca. Da allora, una vittoria strappata con i denti contro i derelitti Cavaliers, dopo due supplementari, una sfortunata sconfitta a Toronto, la lunga sosta per l’All Star Game, di cui parlerò a parte. Dopo, solo tanta tribolazione: le pesanti sconfitte casalinghe con Blazers e Wizards, intervallate dalle esaltanti ma effimere vittorie a Charlotte e con gli Spurs. Andamento lento ma in altalena, nulla di compromesso, potrebbe sembrare leggendola così, alla luce dei risultati nudi e crudi, ma la realtà, se si guardano le partite, è ben diversa: in Nord Carolina si è portata a casa una vittoria tanto importante quanto insperata, grazie a un D’Angelo Russell evidentemente in odore e atmosfere ancora da All Star; San Antonio era già reduce da una simile batosta rimediata al MSG dai derelitti cugini e, al momento, pareva davvero poca cosa. E le gare successive, ai primi di marzo, hanno, se possibile, non confermato, bensì sprofondato le sensazioni negative in un mare di dubbi e sinistri scricchiolii, nonostante il ritorno di Levert, prima, di Dinwiddie, poi.
Anzi il rientro delle due vere e proprie pietre angolari del progetto e della fin qui splendida stagione di Brooklyn, per paradosso, sembra aver avuto solo effetti negativi sulla squadra: record 6-10 nelle ultime sedici (solo Knicks e Suns hanno fatto peggio), ventottesimi per efficienza offensiva (poco più di 105 di offensive rating) … Se, poi, volessimo darvi anche qualche cifra sul post-ASG, c’è di che mettersi le mani tra i capelli. Alcune stats sono indicative di cosa stia accadendo, sottolineano i fatti e avvalorano le analisi, per cui contravverrò alla mia naturale avversione per la traduzione della poesia sportiva in sistema binario: dopo la sbornia di Charlotte, i Nets sono 27esimi per percentuali dal campo, 28esimi per percentuale di rimbalzi difensivi e offensivi conquistati; sono secondi per percentuale di triple tentate, ma 28esimi per triple realizzate (meno del 30%!). Questo rende l’idea di quanto inefficiente sia divenuto l’attacco e di quanto si sia forzato al tiro.
Proprio in coda a questo numero, registriamo un sorso di brodino caldo, con la larga vittoria contro i Dallas Maverics: bella, sì, ma che va letta anche alla luce della situazione dei texani, ormai fuori dalla corsa-playoff e dediti più che altro alla passerella per il grande Dirk Nowitzki. Fuoco di paglia o prima rondine di primavera, lo dirà il prossimo numero di #stillawake…
Più siamo, peggio stiamo. Quello che si è visto sul campo, in diretta, se possibile, è anche peggio di quanto raccontino i numeri: fino alla vittoria contro gli Spurs, sia pure a corrente alternata, un immenso D’Angelo Russell aveva tirato la carretta, mettendo la sordina ad un mucchio di crescenti magagne. Dopo, abbiamo messo a fuoco una serie interminabile di problemi, improvvisamente e paradossalmente venuti a galla proprio quando la squadra ha perduto l’alibi degli infortuni ed è tornata al completo: non solo Levert e Dinwiddie non hanno aggiunto nulla, soprattutto in ciò in cui erano più attesi, la tanto agognata profondità, la capacità, per loro innata, di attaccare e andare fino al ferro che tanto era mancata ai Nets, come dimensione offensiva. Tutt’altro: sembra essersi rotto qualcosa, nella squadra, dopo il loro ritorno in campo, come se lo stato psicofisico della squadra fosse inversamente proporzionale al numero di giocatori in rotazione; difensivamente, stiamo assistendo ad un ritorno al passato, alle peggiori prestazioni della scorsa stagione; in attacco, l’atteggiamento sconsolato ed arrendevole dei ragazzi fa a botte con quanto avevamo ammirato fino ad inizio del mese e la squadra crolla dopo il primo parziale subito.
L’analisi. Proviamoci, a mettere insieme delle possibili spiegazioni per un tanto repentino ed inatteso salto all’indietro, benché non sia facile districarsi nella giungla di disfunzioni viste sul parquet.
La difesa, a dispetto delle cifre che ho snocciolato prima, sembra il versante di maggior sofferenza. Penosa, è il temine più appropriato. Semplicemente impotente nell’uno contro uno, così come sui blocchi, sistematicamente sfruttati dagli avversari con tiro immediato e incontestato. Sotto canestro, la regressione al rimbalzo e, in generale, nella difesa del ferro appare lampante. Mentre scriviamo, i Nets hanno da poco subito la sconfitta più pesante della stagione a Miami, contro gli Heat privi di Whiteside (e di Dragic), ma ugualmente dominanti, con oltre venti carambole conquistate in più. In una situazione come questa, le uniche risposte possibili sono lo smallball, per cercare di aggredire palleggiatore e linee di passaggio (ma perdendo ulteriore peso nel pitturato) e la zona, divenuta ormai un marchio di fabbrica per Atkinson. Una 2-3 che si trasforma in 2-1-2 in maniera dinamica e, se vogliamo, anche ben fatta. Una buona idea atta a mettere in ambasce la circolazione e l’avvicinamento a canestro da parte degli avversari, può facilmente trasformarsi, però, in un tunnel senza uscita per chi la applichi troppo a lungo e, infatti, presto o tardi, il coach che si ha di fronte trova la chiave e buonanotte a tutti…
L’attacco ristagna per tre ordini principali di ragioni: i rientranti sono ancora visibilmente sottotono. Ci sta tutto. Quello che, a nostro avviso non ci sta, è rimetterli subito nella mischia ad alto minutaggio, Levert in quintetto e Dinwiddie spesso in campo per dare una scossa che, tuttavia, non arriva più. Entrambi non hanno ancora il ritmo-partita e, soprattutto, il bruciante primo passo che li rendeva imprendibili di fronte ai mismatch. Ecco che la dimensione della profondità viene sovente meno, la palla non gira o lo fa a centrocampo, in modo infruttuoso, rendendo la manovra lenta e prevedibile e dando tempo alle rotazioni difensive, il che, per una squadra che vive di motion offense, rende la vita davvero dura: è più raro che si riesca ad innescare il mortifero catch & schoot di Harris, sovente costretto a forzare la penetrazione o a riaprire; dal canto suo Crabbe, ormai l’ombra di sé stesso, ha perfino meno frecce al proprio arco e finisce, invece, per forzare la tripla anche in situazioni improponibili, senza ritmo e mani in faccia.
I blocchi sono tornati ad essere spuntati e disfunzionali: l’aggressività sul portatore da parte del lungo avversario, fino a centrocampo, rende più complesso portare il blocco al palleggiante, Allen ricade facilmente nell’errore di scivolarlo o di accennarlo appena, non generando alcun vantaggio per Russell che, al contrario, è maestro nel finalizzare i blocchi, né per Dinwiddie, che non ha recuperato l’usuale brillantezza nei drive per punire a dovere gli eventuali cambi difensivi. Prova ne sia il crollo verticale di quel fondamentale tassello del gioco bianconero che erano e restano gli screen assist, per le formidabili PG di cui i Nets sono dotati. Ancora qualche cifra emblematica: i bianconeri sono secondi nella Lega per screen assist stagionali (26,4 a partita), Jarrett Allen brilla come quinto assoluto nel portarli (4,6 pg). A gennaio il picco (28,2 a partita), mentre il dato crolla a 25,8 a febbraio e addirittura a 20,6 nelle gare disputate dopo l’ASG!
Le avversarie si sono adattate: troppo spesso, nel corso delle ultime gare, si è assistito a determinate scelte difensive da parte di chi affronta i Nets, per poter credere a coincidenze (posto che esistano).,. In particolare, tanto gli Hornets, quanto gli Heat, hanno dispiegato una strategia difensiva volta a imbrigliare la creazione del gioco ad opera della All Star D’Angelo Russell, raddoppiandolo sistematicamente e molto alto. La stessa operazione è stata messa in atto con Dinwiddie in quel di Miami e tardive sono apparse le contromosse di Atkinson, con l’uscita dai blocchi di Harris per il taglio a canestro: nel frattempo, Spoelstra aveva già bucato la zona con Olynyk, conquistato e raso al suolo il pitturato con Adebayo, realizzato il parziale decisivo.
Atkinson. Diamo ancora a Cesare quel che è di Cesare: ciò che i Nets hanno fin qui costruito in questa stagione non è stato ancora oscurato dalle ultime, sconfortanti prestazioni e va ascritto a merito di Marks e del coach. Con altrettanta schiettezza va detto che, dopo la ripresa e, soprattutto, il rientro di Dinwiddie, si è avuta la sensazione, netta, di una rinnovata, grande difficoltà a gestire le rotazioni allungate, ripristinare gerarchie ed equilibri, trovare soluzioni in corsa. Il volto dell’Atkinson dello scorso anno, insomma. Va detto che, contro i pur derelitti Mavs, qualcosa è cambiato: i segni di netta ripresa di Kurucs sono stati colti e, anche grazie alla concomitante assenza di Graham, il rookie lettone è tornato in quintetto da stretch four (l’anello disperatamente mancante), mentre Crabbe ha preso il posto di Levert, più ragionevolmente fatto uscire dalla panchina. Ne hanno giovato tutti. Potrebbe essere una prima soluzione…
Gli occhi della tigre. Sia chiaro, tuttavia, che queste sono valutazioni di merito estrapolate, sì, dalla visione delle partite, ma ex post, a freddo e dopo lungo e penoso ragionamento, perché ciò che salta all’occhio durante la diretta è molto più semplice: la Brooklyn Grit sembra sparita! Nelle tre sconfitte consecutive a cavallo tra febbraio e marzo, tre partite ampiamente alla portata dei Nets visti solo poche settimane prima, sono mancati lo sguardo feroce, la fiducia in sé stessi (quella, per intenderci, che avevano trasmesso, a pelle, i ragazzi anche quando erano sotto di ventuno punti a Orlando), la grinta, la rabbia, la fame. Il linguaggio del corpo dice a chiare lettere che, da qualche parte, c’è un’emorragia di fiducia, il primo parziale subito sembra una ferita che non rimargina e la squadra dà la sensazione di arrendersi, mancare del colpo di reni necessario per rialzarsi. Lo sguardo basso di Jarrett Allen in lunetta, a Miami, è un libro aperto senza parole: non servono. Lo 0/2, l’inevitabile e prevedibilissima conseguenza. Il piacere di giocare insieme, il genuino e contagioso entusiasmo della panchina di fronte ai “numeri” dei compagni in campo, hanno rifatto capolino contro Dallas, proprio mentre scriviamo, quasi bussando timidamente.
Ma, appunto, stiamo già parlando di marzo, il cui compito sarà precisamente quello di dirci se quell’entusiasmo saprà superare “la soglia della percezione” e tornare alla luce del sole. E se sarà sufficiente ad affrontare un calendario non proprio amico…
L’alba delle stelle. Il capitolo più entusiasmante di febbraio è in coda al presente #stillawake, volutamente, per lasciare, ai tifosi bianconeri che avranno avuto la pazienza di restare con noi fino a questo punto, un retrogusto dolce e permettere loro di intravedere la luce in fondo all’ennesimo tunnel: in fondo, se tanto fulgore hanno emanato le stelline bianconere a Charlotte, da riuscire a splendere perfino tra le stelle più luminose del firmamento NBA, vuol dire che le armi e le forze per venirne fuori e risorgere di nuovo, ci sono. Giudicate voi.
I Nets sono presenti alla kermesse più attesa dell’anno con quattro ragazzi: sono la rappresentanza più folta della Lega! Ai partecipi della Rising Stars Challenge, il rookie Kurucs, stabilmente tra i cinque o sei migliori, per rendimento, al di fuori della lottery, ed il sophomore Allen, re degli screen assist e delle stoppate dalle vittime illustri, si sono aggiunti, colpevolmente in ritardo, Joe Harris, ultimo eletto per il Three Point Contest con la miseria del 47% stagionale dall’arco, e, dulcis in fundo, D’Angelo Russell, convocato un giorno dopo gli altri, in sostituzione dell’infortunato Oladipo. Russell, per intenderci, recente player of the week, autore di una serie interminabile di partite chiuse con oltre 20 punti all’attivo, viaggiando con oltre 23+7 tra dicembre e gennaio e, fatalmente, di recente entrato nella discussione per il titolo di MIP stagionale…
Poco importa: i bianconeri si faranno valere, sia pure nel minutaggio ridotto loro concesso. Kurucs fa 10+4+5 in 15′, Allen solo due punti ma, con due stoppate delle sue, sa fare bella mostra di sé. Russell ci regala un paio di triple nella serata clou, con Team Giannis. Poco altro e poco spazio, ma ciò che contava era esserci, assurgere ufficialmente al rango di Star, in barba ai giudizi sprezzanti del suo ex presidente che gli diede il benservito per far largo a Lonzo Ball…
Questo accesso tra i grandi è un messaggio forte e chiaro per chi di dovere: per la Lega, perché dice che le stelle non sono solo quelle che esplodono al primo contatto con i parquet professionistici e che a Brooklyn ve n’è una fabbrica formidabile; per i suoi pari, cui Russell fa neppure troppo sommessamente presente che i Nets hanno già tanta roba nel sacco e non vedono l’ora di aggiungerne altra, per tornare a vincere. E, soprattutto, per Sean Marks, perché qui c’è un ragazzo che sta diventando uomo e sarebbe il caso di dargli tante buone ragioni per fermarsi a Brooklyn…
L’apogeo bianconero, tuttavia, si realizza nella gara da tre punti, quando Joe Harris mette in fila tutti, compreso Steph Curry e si aggiudica la sfida alzando il trofeo, come fece già l’anno prima Dinwiddie nello Skills Challenge. Ora, però, il proscenio è decisamente più prestigioso e la naturalezza del suo tiro in leggera sospensione, la rapidità e la dolcezza del rilascio, culminando nel carrello dei moneyball con cinque ciuff deliziosi, gli schiudono definitivamente le porte della consacrazione: oggi, qui ed ora, il re della NBA, dall’arco, è proprio lui, quel ragazzone dall’aria un po’ sfigata approdato a Brooklyn dopo un brutto infortunio e un paio di sdegnosi tagli, al minimo salariale e con la sensazione di essere all’ultima carta del mazzo. Ben giocata, Joe, davvero!
È sufficiente, come iniezione di fiducia? E, soprattutto, basterà, per rilanciare le ambizioni di questa banda di allegri scapestrati, nel durissimo marzo alle porte? Ce lo racconteremo, se vorrete, nel prossimo numero di #stillawake, dopo tante altre notti insonni.
Stay tuned!