Giano rappresenta la contraddizione presente in tutte le cose: è il dio dei passaggi, delle transizioni, i cui due volti guardano dentro e fuori, al lato oscuro e a quello luminoso, al prima e al dopo.
I Brooklyn Nets, diversamente dagli antichi romani, hanno dedicato al divum deus non gennaio, bensì marzo, regalando, come loro solito, un’altalena di emozioni, ma, contrariamente ai mesi precedenti, di ambigua lettura, che si presta a due differenti interpretazioni, a seconda che si voglia guardare il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.
Tu chiamale, se vuoi,… Eccolo, Giano, sorgere da ogni partita ed entrare negli sguardi e nei cuori di noi osservatori nottambuli!
Un bilancio tutto sommato confacente con le proprie possibilità ed il proprio rango (record 7-7 con calendario non facilissimo) ma dal retrogusto amarognolo, per via delle occasioni perdute (vedasi Portland, soprattutto) e dei trionfi delle dirette concorrenti (la Florida fatal…).
Un gioco a singhiozzo, ma capace di sprazzi esaltanti.
Un Russell formato all-star, ma anche autore di prove sconfortanti e di errori pagati a caro prezzo.
Un frontcourt latitante ma una coppia di guardie ampiamente da post-season.
Un linguaggio del corpo che non trasmette più fiducia incrollabile ma, nel contempo, la capacità di rispondere colpo su colpo ai dardi della scalogna e rialzare la testa la volta successiva.
Il serbatoio delle energie in riserva, ma una panchina capace di raschiare risorse fin dall’ultimo sedile.
Lo sguardo perso di Kurucs e quello sfiduciato di Allen in lunetta e le danze furiose delle riserve ad ogni magia dei compagni in campo, divenute virali sul web.
Ad ogni sconfortante sconfitta, quasi sempre accompagnata dalle sonanti vittorie di Orlando o Miami, la risposta attesa.
Vincere sempre quando si deve ma non riuscire mai a piazzare il colpo a sorpresa contro le più forti.
La percezione della voglia di combattere fino all’ultima stilla di sangue e, insieme, quella di non averne abbastanza per andare oltre il compitino.
Potremmo continuare per ore, enfatizzando un concetto molto semplice e, se vogliamo, decisivo, in questo finale di stagione: i Nets sono una buona squadra, ma estremamente umorale e un po’ a corto di energie, soprattutto mentali, così come è normale attendersi da un gruppo giovanissimo e quasi digiuno di esperienza playoff. Un gruppo che ha portato a casa il minimo sindacale nel mese in questione ma che, ora, di fronte al pazzesco ritorno dei Magic, potrebbe non essere sufficiente per superare gli esami a pieni voti. Proviamo ad entrare nel merito…
La cronaca. Il mese si è aperto con le preoccupanti sconfitte contro le concorrenti Charlotte e Miami, seguite da tre sorsi di brodino caldo, nei più classici dei must win match contro alcune delle regine del tanking (Dallas, Cleveland e Atlanta).
Poco margine per gli entusiasmi generati dalla esaltante vittoria contro Detroit, perché ecco iniziare il tour di due settimane ad Ovest, chiuso con le sole vittorie di Sacramento e Los Angeles (sponda Lakers, sancendo la vendetta di Russell, il cui canestro della staffa ha condannato la sua ex squadra, il suo severissimo giudice Magic Johnson e sua maestà LeBron alla matematica esclusione dai playoff) e quattro batoste, di cui due (l’altra sponda di Los Angeles e, soprattutto, Portland, dopo due OT) davvero cocenti e gravide di rimpianti, perché avrebbero potuto regalare una volata finale dallo spirito ben diverso…
Quindi il ritorno ad Est, con la sconfitta di Philadelphia, una delle più indigeste; ci stava tutta, per carità, vista la differenza tecnica, tattica e, soprattutto, fisica tra le due squadre: un continuo, sfavorevole mismatch in cui (ma questo è stato un po’ il refrain di tutte le stagioni dei Nets 2.0) il frontman di turno, quello bravo (nell’occasione, leggi Embiid) spadroneggia. Eppure lascia l’amaro in bocca, vista la rimonta lasciata a metà, l’energia profusa da una panchina eccezionale e il “tradimento” della propria stella nel momento del bisogno.
Infine, il riscatto contro i Celtics, quasi in scioltezza, ma privi, questi, di gente da niente come Irving e Horford…
Il solito viaggio sulle montagne russe, la solita altalena di emozioni, la solita resilienza, ma con la costante sensazione di essere una coperta troppo corta, in riserva di energie, le mani che tremano nel momento chiave della gara, il ricorso spasmodico alla difesa a zona e allo smallball, obbligate per via del gap fisico, al punto da non essere più ciò che dovrebbero, ovvero l’eccezione, risorse tattiche estemporanee, ma divenire, invece, la regola, lo standard strategico, prestando il fianco alle contromisure avversarie. Il tutto mentre Orlando fa 7-3 nelle ultime dieci e si porta a una sola partita di distanza ma con un calendario decisamente più agevole di fronte a sé, mentre i Nets sono attesi ancora da due big, prima dello spauracchio di uno spareggio dentro-fuori, l’ultima notte, contro Wade e compagni. Scenari da incubo, o da infarto, che abbisognerebbero di un carattere granitico…
Il consuntivo tecnico. A tutto questo non si è arrivati per caso. I Nets formato 2019 hanno portato a compimento un roster adatto a concretizzare la filosofia di gioco di Atkinson, fondata sui principi della motion offense, vagamente di ispirazione Princeton, in cui tutti sono coinvolti in una prolungata circolazione di palla, compreso Allen, strategicamente portato fuori dal pitturato per bloccare sul palleggiatore ed effettuare il consegnato, sfruttare le lunghe leve per rollare rapidamente a canestro o, più spesso, lasciare libero il corridoio per il drive della PG ed andare a bloccare lontano dalla palla per liberare il tiratore. Dal seme del pick and roll germogliano tutte le varianti del gioco bianconero, in cui tutti e cinque gli attori sono liberi di compiere la scelta di attaccare, tirare o riaprire il gioco e dunque tutti sono responsabilizzati, alla ricerca dell’uomo con il vantaggio giusto per la conclusione a più alta percentuale realizzativa. Le principali alternative risiedono soprattutto nel talento di D’Angelo Russell (fino al 12 novembre, anche in quello di Levert) che, all’inconfondibile floater dalla media, ha aggiunto a repertorio un dolcissimo tiro dall’arco appena ricevuto il blocco e, ultimamente, anche un credibile attacco al ferro sui mismatch, divenendo, nelle serate di grazia, sostanzialmente immarcabile.
Tutto molto bello ed efficace, finché, dopo l’ASG, non si è assistito agli adattamenti delle difese, sempre più orientate, prima, verso il raddoppio operato dal lungo (Charlotte, Miami), andando ad inceppare sul nascere la principale fonte del gioco bianconero, per tornare, poi, nelle ultime gare, in ragione del calo delle percentuali dalla media di Russell, a difendere il P&R schierando il lungo a chiusura del corridoio, forzando nuovamente il floater (Toronto). Rallentando le decisioni di Russell, gli avversari hanno tempo di ruotare chiudendo le linee di passaggio e limitando le assistenze per il mortifero catch & shoot di Harris. Il re delle triple, pur continuando ad esprimersi su standard da playoff, ha dovuto modificare, infatti, il proprio scoring box, passando dai 13,9 ppg, con 5,2 triple tentate, tutte su assist, con il 47,1% di realizzazione prima dell’ASG, ai 12,9 ppg di marzo, con 4,5 tentativi dall’arco, il 44 % e un significativo 10% in meno di canestri dal campo assistiti: in pratica, è stato costretto ad arrangiarsi molto di più da solo, facendolo senz’altro ancora con ottima efficienza, ma decisamente inferiore agli standard irreali antecedenti il suo trionfo alla kermesse di Charlotte, perché meno facilmente innescato.
La ricerca di soluzioni. Ecco, allora, che, per restare competitivi, occorrerebbe trovare solide alternative, specie in fase realizzativa, preservando, nel contempo, la carica di quella clamorosa batteria di scorta rappresentata dalla panchina. Atkinson ci ha provato, ributtando nella mischia, dopo l’infortunio di Graham, Kurucs, in posizione 4, e Allen Crabbe. Pur non brillando per efficienza e contributo offensivo, comunque la loro presenza in campo ha restituito equilibri allo starting five (figurano tra i primi 3 assoluti per plus/minus nel mese di marzo!) e alle rotazioni, lasciando intonsa la second unit con tutte le sue risorse, con il solito Dinwiddie in testa.
L’infortunio di Crabbe, ormai fuori da tempo immemore e comunque, almeno dall’arco, ormai l’ombra di sé stesso, ha costretto il coach ad un ulteriore rimescolamento che, riportando Carroll in quintetto, ha assicurato sì, solidità, QI, continuità di rendimento ed equilibrio, oltre a qualche punto in più ad un frontcourt gravemente latitante, ma ha anche diluito il suo impatto sulla gara e svuotato una rotazione che lo stesso Kenny aveva ridotto a nove uomini.
Va detto che proprio la panchina ha recitato un ruolo cruciale durante tutto il corso della stagione, sopraffacendo i pari ruolo avversari, aggredendo la partita, iniettando dosi robuste di adrenalina nelle vene della squadra, dando il la alle rimonte, talora risolvendole. Russell, dal canto suo, ha rappresentato il go-to-guy la cui classe ha girato definitivamente le partite, ha incarnato lo step-up che ha condotto i Nets dall’essere il clamoroso what if, ricco di belle speranze e ipotesi di star, ma penalizzato dalla malasorte, dello scorso anno, alla sorprendente realtà della stagione corrente.
Calo psico-fisico generale e appannamento del leader stanno rischiando di compromettere un sogno, non consentendo alla squadra di sconfinare l’ordinaria amministrazione e scalare l’ultimo gradino, laddove altri, invece, lo stanno facendo.
Occorre andare oltre, adesso, e trovare, sul fondo del barile, qualcosa in più, un surplus di risorse, un ulteriore, estremo passo in avanti.
Due sono gli auspicati e più probabili indiziati: Jarrett Allen, formidabile rim protector ma decisamente soverchiato dai dirimpettai, deve tornare ad aggredire il canestro e a bloccare efficientemente e senza paura, e, soprattutto, Caris Levert… Troppe speranze, probabilmente, sono state riposte nell’impatto immediato del ragazzo fin dal suo rientro: non è stato così, e Atkinson ha dovuto presto capacitarsi del fatto che, più opportunamente, dovesse uscire dal pino dosando bene le energie. Ancora troppo timido e troppo poco bruciante, ma sta crescendo. Il suo contributo su ambo i lati del campo sarebbe prezioso nel convulso finale, togliendo punti di riferimento agli avversari e fornendo alternative e ball-handling, sgravando un Russell che sembra aver bisogno di una mano.
Le rotazioni potrebbero (a nostro parere, dovrebbero) essere allungate, coinvolgendo maggiormente i tre ragazzi lasciati ai margini durante il mese di marzo: Dudley sta, infatti, già guadagnando minuti e lo sta facendo molto bene, soprattutto nelle spaziature e nella dedizione difensiva; Hollis-Jefferson è, pur andando spesso fuori giri, un’infusione di vitamine purissime, lo stesso Napier, forse, può surrogare alle “assenze” di Russell quanto le altre PG, essendo, forse, quello dalle caratteristiche tecniche meno dissimili da lui.
Ma, più di ogni altra cosa, i Nets sono attesi, tutti, al passaggio ad una dimensione superiore (riecco Giano), su di un altro piano, sul versante psicologico: devono acquisire la durezza caratteriale e la rabbia necessarie nelle partite vere, quelle che contano. Al di là di ogni altra disquisizione tecnica, sono queste le virtù richieste nel pianeta alieno chiamato playoff, la cui atmosfera, per chi si avvicina senza il necessario equipaggiamento interiore, è semplicemente irrespirabile.
Il colpo di reni non può che partire da qui: inutile sperare nelle disgrazie altrui. Inutile farsi illusioni sulla benevolenza della sorte o delle avversarie. Deleterio, addirittura, iniziare, da ora, a puntare tutto sullo spareggio con Miami: Wade, sugli skills di cui sopra, potrebbe tenere conferenze, alla banda di sbarbatelli con la canotta bianconera.ù
La pressione può tramutarsi in un impulso positivo, a patto che venga affrontata senza paura: nulla e nessuno potrà cancellare l’impresa compiuta quest’anno, la trasformazione…neppure l’eventuale, cocente delusione di una stagione chiusa in anticipo. È questo il messaggio (neanche tanto) nascosto che si cela dietro la presenza di Tsai in casa e in trasferta nelle ultime uscite e, soprattutto, dietro la conferma di Atkinson e Marks, oltre che dell’intero coaching staff, fresca di annuncio da parte di Adrian Wojnarowski. Mai estensione fu più meritata, né più tempestiva, per stemperare la tensione sulla testa di chi deve tenere le redini del cavallo fin qui in prima linea, ma ora affannato proprio in vista del traguardo.
La sconfitta con i Raptors, proprio nelle ore in cui chiudiamo l’articolo, racconta tutto il finale di stagione condensandolo in 48 minuti: ci si scava un fosso con le proprie mani, vittime inesorabili dei lunghi avversari, nel primo tempo, poi la scossa, prima dalla second unit, poi da un Russell fin lì latitante, ma la rincorsa si arresta sul più bello, non solo, o non tanto, perché gli altri hanno più frecce al proprio arco, quanto per una serie di madornali errori, alley-oop sena senso in mezzo al traffico, triple aperte mandate sul ferro, assist cervellotici tra mille braccia e mani di gelatina in lunetta. Segni inequivocabili di growing pains, peccati di gioventù che rappresentano, in sfide dal sapore playoff, una zavorra tuttora apparentemente insoluta in casa Nets.
La personalità e la faccia feroce necessarie in queste sfide sono, precisamente, la misura della distanza tra i ragazzi di Atkinson e il sogno della post-season, che D’Angelo stesso ha definito, a chiare lettere, irrinunciabile.
Mentre scriviamo queste ultime righe, siamo alla vigilia di un volatone a quattro il cui esito appare nebuloso, con l’aggravante di un calendario bianconero a dir poco inclemente.
Se i Brooklyn Nets sapranno colmare quella distanza tirando fuori gli attributi, se l’ultima di campionato, in casa con Miami, assumerà le fattezze della partita dell’anno, come in un film, se Giano, di fronte all’ultimo passaggio, volgerà, finalmente, il suo volto benevolo verso i bianconeri, è scritto nel futuro e ci apprestiamo a leggerlo insieme.
Stay tuned!