Il cerchio magico si è ristretto a quattro pretendenti al trono. Dichiariamo chiuse le semifinali di Conference: bellissime, suggestive, tutte da gustare e, forse, perfino più attese e significative delle Finali che ci apprestiamo a seguire, perché gli esiti, tutt’altro che scontati, hanno detto tanto sul futuro delle protagoniste e sulle aspettative da nutrire per il prosieguo.
Come al solito, non procederemo con ordine: #insideout è una rubrica emotiva, in un certo senso allegorica, perché non fa cronaca, ma cerca di estrapolare un significato profondo da quanto visto per parlarci un po’ su, se ne avrete voglia. E di significati, dietro le splendide partite cui abbiamo assistito, ve ne sono a iosa.
Cominciamo dai campioni: i Warriors hanno vinto soffrendo, senza mai dominare le singole partite, vero, ma sono anche gli unici, delle quattro ancora in corsa, a non aver mai perduto il fattore campo, nonché ad aver trasmesso, finora, sempre o quasi la sensazione di essere pienamente padroni del proprio destino: di essere, cioè, l’unica squadra a poter vincere, ma anche a poter perdere il titolo, anche quest’anno. Hanno subito la difesa di Houston, hanno avuto serate-no dagli splash brothers, hanno confidato tanto in Kevin Durant; talora, forse, beneficiato della buona sorte ma, in gara-6, hanno chiuso la serie a casa dei Rockets imponendo la legge del più forte proprio in assenza di KD!
E, questo, a nostro parere, sfata un luogo comune abbastanza gettonato, talora quasi inconsciamente, sul web, specie sui siti specializzati in basket stars & stripes: che, cioè, il basket sia sì, uno sport di squadra, ma che alla fine ciò che decide le sfide, soprattutto ai playoff, siano solo i grandi campioni, i leader, i trascinatori.
Questa visione un po’ manichea e idealista (nel senso che la storia sarebbe scritta non dai collettivi, ma dai grandi uomini o dagli eroi) lascia davvero il tempo che trova e potremmo citare mille esempi eclatanti. Con questo non volgiamo dire che le star non siano indispensabili: quando il giuoco si fa duro, il livello emotivo, fisico, atletico e di intensità si alza e l’equilibrio regna sovrano, è chiaro che avere giocatori forti tecnicamente e mentalmente sia fondamentale. Ma nessuno vince da solo e neppure in due o in tre. Basti guardare i Bucks: Antetokounmpo è un supercampione, questo è fuori discussione, ma il successo largo contro i Celtics è ascrivibile non certo solo a lui, ma soprattutto al sistema che Budenholzer ha disegnato intorno a lui, con giocatori forti ma non certo di primissima fascia: Middleton, Bledsoe, Lopez, ma anche (e quanto importante è stato!) un Connaughton in uscita dalla panchina, ad esempio.
Tornando a Durant (auspicando il suo pronto ritorno in campo che, però, a quanto pare, non avverrà prima di gara-3 delle WCF): stiamo parlando di un finalizzatore eccezionale, capace di dominare tanto dal post, quanto dal palleggio, dall’arco quanto in avvicinamento e il suo tiro in testa a qualsiasi avversario dal mid range è quasi una sentenza in giudicato prima che la palla lasci la sua mano. Eppure il sistema-Kerr ha avuto la forza, fuori lui, di imprimere il proprio sigillo, su una partita decisiva e in un ambiente ostile, contro quella che, forse, tra le otto, era l’avversaria più pericolosa e credibile. Quel sistema, cioè, che permette a Curry e Thompson, quando la serata è quella giusta, di tirare fuori il campione che alberga in loro, di sprigionare appieno il proprio devastante potenziale, facendo di Golden State una schiacciasassi, anche e soprattutto grazie a uomini chiave di cui si parla pochino, come Iguodala o il favoloso Draymond Green di questi playoff.
KD farà le valigie anche qualora dovesse vincere ancora? La sensazione è quella, ma non ci giureremmo. Non più, ora che tutto sembra essere tornato a funzionare. Quel che è certo è che realtà come i Bucks sembrano essere destinate a consolidarsi e a continuare la propria marcia verso la creazione di una dinastia quantomeno concorrente, a prescindere dall’esito delle finali. La sicurezza ostentata dopo il passo falso in gara-1 ha fatto sembrare l’eliminazione dei Celtics quasi una propaggine del primo turno e questo la dice lunga sulla preparazione di coach Bud e sulla forza del gruppo, indipendentemente dai demeriti di Irving e soci, apparsi, invece, loro sì sull’orlo del “liberi tutti”: Kyrie sarà sul mercato e la permanenza in Massachusetts quantomeno inverosimile, Hayward mai più tornato il giocatore di due anni fa, Tatum e Brown molto lontani dall’essere dei leader, Horford prezioso ma decisamente stagionato, più tanti discreti role player. Ainge sembra di nuovo atteso al superlavoro…
Stesso discorso potrebbe essere fatto per i 76ers, autori di una serie drammatica ed eliminati con un buzzer in gara-7. Lo sport professionistico, tuttavia, sa essere estremamente crudele e, se si finisce sul banco degli imputati, difficilmente concede attenuanti: Brown, in particolare, pareva appeso al filo del risultato; Embiid è una sicurezza, ma è facile agli infortuni, Reddick è stato a tratti spettacolare, con le sue triple estemporanee, la sua capacità di aggiustare i piedi e sparare da qualunque posizione probabilmente non ha ancora eguali nella Lega, ma non è certo un leader, né un ragazzino, Simmons è una forza della natura, ma mentalmente ha deluso e non accenna ad andare oltre i propri limiti, Harris è un’ala moderna, ma non un primo violino, è andato un po’ a singhiozzo ed è una delle pedine più appetite sul prossimo mercato, insieme al compagno d’avventura Jimmy Butler. The process, insomma, rischia di sfumare in nero prima di dare i suoi frutti più attesi.
I loro “killer”, i Raptors, sono esattamente nel guado tra presente e futuro. L’approdo alle Finali di Conference segna un enorme passo avanti anche rispetto alla passata stagione e non era scontato, con un head coach al suo primo anno e una star nuova di zecca, ma precaria (è in scadenza anche lui) e una fama da spacca-spogliatoi forse un tantino ingenerosa, ma inevitabile, viste le scorie texane. Invece hanno visto esplodere il MIP in pectore Siakam e sfoderato una difesa uno contro uno arcigna e determinante nell’economia della serie con Philadelphia, anche grazie al ruolo crescente di un veterano di peso come il neoarrivato Marc Gasol. Basterà, tale traguardo, per trattenere Leonard, destinato, soprattutto alla luce di una post-season da MVP, a rivestire il ruolo di più ambito della prossima free agency? Difficile dirlo oggi, quando tutte le teste pensanti, in Canada, sono proiettate verso la finale con i Bucks. Certo è che la nostra teoria materialista e democratica della pallacanestro ha trovato in lui la più insidiosa eccezione e, in quel tiro a fil di sirena, fuori equilibrio, con le mani di Embiid in faccia e danzante sul ferro per un paio di interminabili secondi, l’icona dei playoff 2019. Faticheremo a dimenticarlo.ù
Se Leonard sta giocando come l’eccezione alla nostra idea democratica del gioco, Irving (saltiamo sempre di palo in frasca) sembra, invece, incarnare la regola: un uomo solo al comando non risolve i problemi, anzi… Il solito tritacarne del web e del giornalismo d’oltreoceano ha indicato lui come IL problema. Ingeneroso e fasullo. Irving può, sicuramente, essere ben più del giocatore impreciso ed egoista di gara-4 e di quello sconsolato di gara-5, ma certo non può giocare da solo. La sensazione perenne (almeno la nostra), fin dalla regular season, è stata quella di una squadra che non ha saputo o potuto trovare la chimica giusta, soprattutto in attacco. E tanti, troppi, potenziali primi attori hanno fortemente deluso, non tornando sé stessi o non esplodendo come tanti si aspettavano. Perfino un signor allenatore come Brad Stevens ha ammesso di “non aver fatto un buon lavoro, quest’anno”. Contro la squadra dal gioco più funzionale della Lega, quella con il gioco meno funzionale avrebbe dovuto avere Michael Jordan, più che Irving, per avere qualche chance, e forse non sarebbe bastato neppure lui…
Restano le protagoniste dell’ultima serie, l’unica dalla quale escono…due vincitrici! Si, perché mi rifiuto di accostare i Nuggets a qualunque sinonimo di eliminazione o sconfitta. Malone ha fatto miracoli, la stagione è stata strepitosa, il futuro è roseo (sembra che Michael Porter Jr. sia pronto a tornare: potrebbe essere davvero l’anello ancora mancante!), Jokic è davvero una superstar, capace di giocate da centro puro come da navigato playmaker o da shooting guard, all’occorrenza. Semplicemente, al momento del dunque, McCollum (un Leonard in formato tascabile, la sua gara-7!) e soci si sono dimostrati un tantino più pronti, più esperti, più maturi.
Questione di tempi. Anche per il coach: Stotts è, forse, il più sottovalutato, il meno discusso, il più adombrato dallo straripamento della sua coppia di guardie, eppure le sue scelte sono risultate decisive quando, sul -17, nemmeno sua madre avrebbe scommesso su di lui. Il sapiente dosaggio delle sue “spezie” Collins, prima, e Turner, poi, ha semplicemente spezzato il fiato a Denver, ove di ossigeno già se ne respira pochino. La sua impresa va valorizzata tanto più per via dell’assenza di Nurkic, altro giocatore-chiave di presente e futuro a Portland, ove, ne siamo certi, si farà a gara per rimanere, con un trio di stelle, anche giovani, di questa qualità. E, se Collins e Turner sono comprimari…
E ora? Beh, non resta che fare i pronostici. Per noi, come finora abbiamo sempre sostenuto, il pronostico resta favorevole per chi parte col fattore-campo a proprio vantaggio: per forza, gioco e continuità, perché, per un anno intero, hanno dimostrato di aver qualcosa in più. O, semplicemente, perché lo meritano. Ci aspettiamo smentite da parte di Dame o di Leonard, che faranno di tutto per non mostrarsi d’accordo: vero che, finora, sono latitate eliminazioni imprevedibili ma, sul piano del gioco, di belle sorprese ne abbiamo avute tante, forse anche più che in passato, dunque why not?
A prestissimo, allora, sempre pronti con birra e popcorn, con la dedizione e la spensieratezza di chi ha voglia di un’altra chiacchierata sul nostro argomento preferito… Stay tuned!