Chi non conosce i sintomi del mattino dopo la bevuta? Mal di testa, stomaco sottosopra, difficoltà a rimettere in ordine le idee… Dopo aver vissuto un sogno, dopo aver riassaporato l’ebbrezza del successo a inizio mese, dopo il vertiginoso salto nel mondo dei sogni, il resto del mese non è stato altro che un lungo tentativo di mettere a fuoco il proprio nuovo status e realizzare cosa sia successo e come. Poi, smaltita la sbornia, iniziano le riflessioni su aspettative e know how: il salto è di quelli da piegare le gambe, per un’organizzazione giovane e abituata, finora, a lavorare senza pressioni su ragazzotti promettenti, qualche talento in attesa di esplodere e poco più. Ora più che mai lo staff tecnico è chiamato alla prova del fuoco: qui si parrà la tua nobilitate, coach Kenny! Ne parleremo, perché a nostro avviso la chiave della prossima stagione verterà proprio su questo tema.
Sicché anche noi, che facciamo cronaca e riflessioni sui Nets, procederemo…In disordine, regalandovi un patchwork di notizie e suggestioni solo apparentemente tra loro slegate, da leggere sotto l’ombrellone: la pulp fiction bianconera!
Pronti?
È estate: prima un buon cocktail di cronaca…
Summer league. Tutto sommato una buona esperienza per i ragazzi, con sugli scudi Jarrett Allen (per lui 16+10 di media, quasi 2 stoppate ad allacciata di scarpe e nomina nel primo quintetto della competizione), ovviamente avvezzo a misurarsi con ben altri dirimpettai ma visibilmente cresciuto anche fisicamente; così così i sophomore, in crescita soprattutto sul versante della lucidità il rookie Claxton, sporadici segnali dai contratti per la Summer League, di cui qualcuno firmerà a Long Island. Una prova in crescendo, dopo la sconfitta iniziale, e finale sfiorata. Ma va bene così.

Nick Claxton neo-acquisto dei Nets
L’ora delle firme. Arrivano, nel frattempo, le ufficializzazioni delle firme per i Nets: tutti i giocatori di cui abbiamo parlato nel corso del precedente mensile, più David Nwaba, guardia undrafted nel 2016 dai Cavs, 6’4’’ ma con un’apertura alare di 7 piedi, uno specialista difensivo che profuma di Graham, che ha già marcato con discreto successo da LeBron James a Butler, da Simmons a Brown, limitandone l’efficienza balistica e che, a quanto pare, sta lavorando per migliorare la meccanica di tiro. Nwaba completa, con un biennale con team option per il secondo anno, il quindicesimo e ultimo spot del roster bianconero. Il primo dei two way contract va invece all’ex-Knicks Henry Ellenson, draftato dai Pistons alla 18° chiamata, anche lui nel 2016; ala forte con la specialità del tiro da tre punti, qualche guaio fisico e tanta G-League, ha esordito con i Knicks dopo la deadline con un paio di decadali, sfoggiando anche due partite da 26 punti. Gioco interno molto limitato, ma uno specialista nel ruolo più lacunoso per i Nets, quello di stretch big, può tornare utile nei 45 giorni in cui sarà a disposizione per la prima squadra. Aspettiamo di conoscere il secondo TWC, per il quale si è lungamente fatto il nome di un altro ex “cugino”, Ron Baker, il quale invece sembra aver ceduto alle sirene del CSKA (in quanti stanno solcando l’Atlantico invertendo la rotta e puntando verso l’Europa, dopo l’anno in cui l’aumento del salario medio e della competitività in G-League e la nuova tipologia contrattuale avevano tentato parecchi giocatori: Shelvin Mack e Milos Teodosic li vedremo, addirittura, in Italia ed eravamo davvero disabituati!). Tempo ce n’è…
Harris e Allen con team USA. O meglio, con la squadra che farà da sparring partner per Kemba Walker e soci, chiamati a rappresentare gli USA ai mondiali in Cina. Non proprio una convocazione, di per sé già deprezzata dalla chilometrica lista di defezioni, più o meno motivate, delle superstar, ma che lascia la porta aperta al sogno. Il “rischio” di finire in Cina, per poi tornarci in preseason per le due gare promozionali contro i Lakers ad ottobre, è minimo, mentre il beneficio, ovvero quello di allenarsi con Van Gundy e con le star, non è trascurabile. Ennesimo riconoscimento alla filosofia, al sistema nonché al talento, lo ricordiamo non senza un garbato accento polemico, di una squadra cui, invece, mai nulla è stato riconosciuto fino a soli otto mesi fa, fino a quando, cioè, non è stato più possibile negare l’evidenza.
Retroscena. Perché leggere #stillawake? Perché vi riassume i fatti di un mese condensandoli e servendoveli (spero) ben confezionati, in un’unica lettura? Perché trattiamo la cronaca ma anche e soprattutto temi tecnici basandoci sull’osservazione in diretta e non sulle tabelline delle stats o su articoli altrui? Forse, ma anche e soprattutto per andare oltre il deja vu e leggere ciò che altri non dicono. Vi dobbiamo, dunque, tra tanti ragionamenti, supposizioni e notizie minori, qualche succoso aneddoto sul dietro le quinte.
1. the steal of the year: l’operazione effettuata con Atlanta prima dell’apertura del mercato, scaricando in Georgia l’oneroso contratto di Crabbe, sarà ricordata da tutti con propedeutica alle firme di Irving e Durant perché, senza di essa, semplicemente non ci sarebbe stato spazio salariale sufficiente e, venendo meno uno dei due, chissà se l’altro avrebbe scelto Brooklyn comunque. Dopo aver loro propinato una simile bomba calorica (contratto da 18,5 milioni), come digestivo, i Nets hanno servito agli Hawks la propria diciassettesima scelta e, fin qui, tutto bene. Ma, sulla contropartita arrivata a Brooklyn per pareggiare il peso salariale, troppo poco si è detto, perché Taurean Prince è uno splendido giocatore, ancora giovanissimo, perfettamente in linea con l’idea moderna di basket del suo nuovo coach e, forse, una delle steal dell’anno. Forte, atletico, tiratore, capace di adattarsi a più ruoli e di difendere su atleti di varia tipologia e stazza, come e più di Carroll sembra il jolly che non potrà mai mancare in un roster di Atkinson. In un ruolo che, da sempre, rappresenta la chiave e l’anello mancante per la quadratura del cerchio bianconero, Prince, in assenza di Durant e anche dopo, insieme ad un altro neo-arrivato decisamente sottotraccia come Chandler, rappresenta un mastice formidabile dalla cui tenuta dipenderà buona parte della traversata che attende la nave dei Nets. In un mercato in cui si sprecano e sorgono quasi automatici i parallelismi tecnici con l’ultima versione dei Nets (ci tornerò a breve), Prince è chiamato a fare il Carroll non avendone il QI e l’esperienza, ma essendo dotato di altrettanto vigore fisico, più atletismo e più tiro: in pratica, la sua versione moderna. Perché, per vincere, non bastano le superstar: serve una squadra!
2. quanta fiducia in Claxton…ovvero: come cavare platino dall’oro! Ancora sull’unico rookie acquisito dai Nets, paradossalmente arrivato alla chiamata numero 31 proprio nella stagione in cui i bianconeri tornavano, dopo sei anni, in possesso della propria prima scelta e avendone, anzi, a disposizione ben due! Diciamocelo francamente: fino a pochi mesi fa, tutti avrebbero scommesso sul fatto che Marks puntasse sul draft. Lo ha, invece, usato non solo come merce di scambio (la 17, come già detto), ma addirittura per grattare via qualche spicciolo dal fondo del barile (la 27 ai Clippers in cambio della 56 di quest’anno e di una prima lottery protected del prossimo anno: un affare già così!) e raggranellare spazio salariale. Un artista, Sean Marks. Ma, siccome una squadra non si fa con due uomini, neppure se portano a spasso i nomi di Iring e Durant, ecco l’altro tocco da fuoriclasse: la doppia sign&trade che ha permesso, di fatto, lo scambio Russell-Durant che ha portato, ai Nets, anche la futura prima scelta dei Warriors (protetta). Tutto arcinoto ai più, fin qui. Quello che in pochissimi, invece, sanno, è che la riduzione del salario accettata da Durant ha consentito non solo di accogliere DeAndre Jordan (altra pedina fondamentale nello scacchiere futuro), ma anche di firmare Nicolas Claxton con un triennale da 4,2 milioni complessivi, piuttosto che con un biennale al minimo come possibile per una seconda scelta. Il ragazzo giocava da point guard alle high schools (come Anthony Davis…), per poi cambiare ruolo quando la statura è cresciuta fino agli attuali 211 cm. circa, conservando memoria della sua vecchia posizione attraverso l’abilità nel palleggio e l’attitudine a giocare fronte a canestro.
Tre anni garantiti assicurano all’atleta e alla società il tempo di lavorare su fisico e fondamentali e di crescere con maggior serenità. Se non è fiducia questa…
Ancora su Durant (qualche sassolino dalla scarpa). Abbiamo già scritto tanto su KD, in questa e in altre rubriche, difendendolo dalle accuse di tradimento e di voler vincere facile. Detto che l’obiettivo di qualsiasi atleta professionista è precisamente quello di vincere, detto che si può tranquillamente assolvere il ragazzo dall’accusa di essere disposto a decurtarsi lo stipendio pur di giocare in un team a sé giudicato consono, semplicemente perché il fatto non costituisce reato (anzi), diremmo che la decisione di lasciare la Baia per accasarsi al di qua del Ponte taglia la testa al toro sulle qualità umane, ancorché tecniche (queste davvero fuori discussione, o no?), dell’ormai ex #35. Durant, azzoppato dalla rottura del tendine di Achille destro, che lo ha costretto alla sutura chirurgica e che, ora, lo terrà lontano dal basket giocato per parecchi mesi ancora, ha fato una scelta di vita, rinunciando tanto alla strada della facile competitività, quanto a una montagna di dollari (supermax quinquennale da 221 milioni per accettare un quadriennale da 164: 57 milioni di dollari in meno), per cercare il successo dove il successo lo ricordano solo gli anziani (titoli ABA negli anni 70, ai tempi di Doctor J), pur di giocare con gli amici Irving e Jordan, affidarsi, tutto il tempo che sarà necessario, alle cure mediche e fisioterapiche di uno dei migliori staff sanitari della Lega e sposare un progetto di cui ha già voluto tessere le lodi (e d’accordo, saranno anche frasi di circostanza, ma difficilmente discutibili, quando afferma che, contro i Nets, non ci si poteva mai distrarre un attimo!).
Ancora su Marks (a cà nisciun è fess). Dall’altra parte del tavolo, a sottoporgli il contratto, il GM del secolo per distacco (Ainge, cedi lo scettro, visti i risultati!), che ha rischiato tutto e accettato un investimento momentaneamente a fondo perduto pur di cambiare destini, immagine e charme della franchigia per la quale lavora. E che, con le briciole rimanenti, certosinamente raccolte sotto il tavolo stesso grazie alla collaborazione dell’atleta, spulciando i codicilli delle exceptions e ricorrendo a tutta la sua abilità di mercante, per costruire intorno a lui e al suo amico Kyrie una squadra più che valida. E, soprattutto, mentre lo faceva, calando una cortina fumogena degna delle migliori curve anni 80, pur di aggiudicarsi la corsa alla coppia di fuoriclasse e dissimulare le trattative per non incorrere nella tagliola formalmente severissima del board NBA sul tampering. Siamo arrivati a dichiarazioni secondo cui Sean non avrebbe sentito il giocatore nemmeno per telefono e avrebbe appreso della sua decisione da Instagram…come dire che Marks e chi vi scrive hanno avuto lo stesso peso nella trade: idolo!

Sean Marks
La ricerca di continuità nel cambiamento. Ma, poiché, in fin dei conti, la rosa della scorsa stagione poi così male non se l’era cavata, ci ha molto colpito l’affinità tecnica dei nuovi arrivati con chi è andato via: segno che, tra i tanti cambiamenti tecnico-tattici che dovremo aspettarci per via dell’innesto di Irving, avremo modo di ritrovare ancora pregi e difetti della passata stagione, all’apertura di ottobre. Qualche esempio? Di Prince naturale sostituto di Carroll e di Nwaba per Graham abbiamo già detto. Claxton sembra tanto un giovane e inesperto Rondo ma con maggior verticalità e potenziale al tiro. Chandler, veterano chiamato verosimilmente a dare tanti minuti dalla panchina nel ruolo di power forward, dovrà interpretare il Dudley della situazione: magari maggior potenziale offensivo, ma saprà fare altrettanto bene in termini di leadership, difesa e…cazzimma? Lo stesso DeAndre Jordan, pur con un nome tanto impegnativo sulle spalle, non è, forse, il soccorso in termini di esperienza, intimidazione e rimbalzi che, sia pure con differente fisicità e stile di gioco, era Ed Davis pochi mesi or sono? Le differenze più significative, in un solco di continuità tecnica così profondo, vengono, a nostro parere, da Theo Pinson, “promosso” tra i contratti garantiti in vece del buon Napier (compito gravoso e tanto da dimostrare, per il simpatico capofila dei festeggiamenti della panchina bianconera) e, soprattutto, da Garrett Temple, potenziale “sostituto” di Crabbe. Veterano degli esterni, arrivato davvero in punta di piedi, vuoi perché contemporaneamente alle firme dei big three, vuoi perché reduce da una vita da gregario, Temple è un altro gran difensore, ma non ha il potenziale esplosivo dall’arco che avrebbe dovuto assicurare Allen Crabbe. Resta un dignitoso 3&D, un jolly esterno, quello che, nell’idea liquida del basket e dei ruoli in campo di Atkinson, non può mai mancare e quello che, nelle migliori intenzioni di Marks, avrebbe potuto e dovuto essere, in meglio, l’ex Portland ora scaricato ad Atlanta: Crabbe, il più grosso what if, tra discontinuità e infortuni, dell’era Marks.
L’impressione che nasce, immergendoci in questo capitolo, è quella di una squadra cambiata tanto nella nomenclatura ma poco sul piano tecnico, che vuole continuare a giocare divertendosi, muovendo la palla, usando la second unit come un punto di forza, facendo incetta di cambi di marcatura sistematici sul perimetro e, magari, migliorando qualche lacuna della passata stagione. C’è più potenziale offensivo nella frontline, ancora maggiore attitudine difensiva tra gli esterni, per lo meno tra i gregari, così come c’è la tentazione di andare ancora e tanto small, perdurando l’assenza di una credibile e completa ala grande. Ci torneremo nel corso delle prossime edizioni. Quel che è certo è che Atkinson ha materiale di qualità forse superiore, già da ora e in attesa del grande ritorno, a quello del 2018.
La stagione (le stagioni?) di Kenny. O dovremmo dire di Markinson, perché hai voglia a parlare di continuità, a ragion veduta e secondo le migliori intenzioni della inscindibile coppia GM-head coach, quando ti ritrovi per le mani non più una franchigia-zimbello senza pretese, né aspettative, non più un manipolo di ragazzini di belle speranze da innaffiare prima ancora che da esporre in pubblico e neppure più una squadra-rivelazione che… “dove arriva, arriva”; bensì una contender, uscita vincitrice, per distacco (nella Eastern), dell’estate più folle e rivoluzionaria della storia del basket, con tutti i riflettori e tutta la pressione del mondo addosso, e non con due buoni giocatori e neppure due stelle qualsiasi, ma con due icone del basket moderno nel roster!

Kenny Atkinson dei nets
Marks, pragmaticamente, parla di mettere la cultura su cui sono stati edificati i nuovi Nets nelle mani della coppia d’assi, cui spetta la responsabilità di svilupparla, plasmarla, renderla vincente senza stravolgerla. Allo staff quella di creare l’habitat ideale per KI e KD, tradurre la loro presenza, nella società dell’immagine e nella città che, in fondo, ne è il simbolo, in un brand di successo mondiale, in campo e fuori. Il trait d’union però, o se preferite il volano che dovrà tradurre le potenzialità in risultati, sarà Kenny Atkinson. Colui che, tra mille dubbi e critiche, ha indiscutibilmente spianato ed asfaltato la strada che conduce l’individuo sull’altare dell’interesse di squadra, ora è chiamato a rendere quella strada a doppio senso, non per stravolgere i propri dettami, ma per mettere in condizione di rendere al meglio chi ha la qualità e la responsabilità di far compiere all’intera franchigia il definitivo step up, da subito e anche in assenza di Kevin Durant. Non parte da zero, va detto: i 4/5 dello starting five saranno, inizialmente, gli stessi che hanno trascinato i Nets ai playoff, gli stessi della travolgente cavalcata dal record 20-6 di dicembre e gennaio scorsi. La panchina, come detto, tra conferme e nuovi arrivati tecnicamente non dissimili dai partenti, gli assicurerà profondità e varietà di soluzioni, canestri, difesa, rimbalzi e cambi di passo, pronta a vincere la sfida contro qualsiasi second unit avversaria. Ma l’unica pedina davvero nuova si chiama Kyrie Irving, quello della tripla che ha regalato l’anello 2016 ai Cavs, per intenderci, quello del film “Uncle Drew”. Una personalità, un ego strabordanti, un’icona, più che un giocatore, ma anche uno che gode di fama non proprio da uomo-spogliatoio. Un fuoriclasse di difficile gestione con il quale il metro non potrà, giocoforza, essere quello del bastone e della carota usato (con successo) con D’Angelo Russell.
Occorrerà trovare il giusto incastro tra l’esigenza del giocatore di primeggiare e avere la palla in mano quando conta e quella della squadra di far muovere la palla stessa in modo da liberare le potenzialità offensive di LeVert, con i drive, e di Harris, con i catch&shoot. Occorrerà portare tutti gli altri su un piano pericolosamente inclinato e scivoloso, su una dimensione nella quale si compenetrino armonicamente la crescente abilità di ball movement di squadra, finalizzandola a rendere ancor più imprevedibile e pericolosa la batteria di tiratori, con l’opportunità, al momento giusto, di creare nuovi movimenti e spazi per aprire corridoi ai brucianti attacchi al ferro di Kyrie. Bisognerà, in sintesi, rendere Irving l’organica punta di diamante di un blocco granitico e non un dorato corpo estraneo. Se Brad Stevens, chiamato al medesimo compito, ha issato bandiera bianca, impresa tanto facile non dev’essere.
Una stagione quindi in cui Kyrie e compagni saranno chiamati a srotolare il red carpet su cui dovrà muovere i primi passi, con la canotta bianconera e il numero 7, quello che da tanti viene considerato (prima dell’infortunio) il miglior giocatore al mondo e da noi sicuramente il più efficiente. Kyrie, ansioso di dimostrare al mondo di essere un credibile primo tenore, dovrà guidare la sua nuova squadra, sempre più affamata e talentuosa, verso i successi attesi e, insieme, incarnare il novello Giovanni Battista che apre la strada al Messia, ancora di là da venire.
Per coach Kenny, filosofo del basket moderno e superbo allenatore di talenti, ma poco più, il ciclopico compito di far quadrare il cerchio declinando la teoria in prassi.
Alla fine di questa pulp fiction, il cerchio si chiude, come nel capolavoro di Quentin Tarantino, intorno alla figura più filosofica e meno attesa del film bianconero. Prova del fuoco se ce n’è una, per un coach che, finora, ha avuto il tempo di crescere insieme ai suoi ragazzi ma per il quale, oggi, il tempo è scaduto, perché la logica della pazienza e dei piccoli passi ha ceduto il passo a quella dell’ambizione. Jump in the fire, coach!
La sfida è durissima ma affascinante. L’estate ancora lunga e sicuramente piena di aneddoti e retroscena da raccontare, so…stay tuned!!
Marco Calvarese
editato by Frank Bertoni