Le speranze di triplete statunitensi sono rovinosamente e simbolicamente crollate l’11 settembre, nel giorno del lutto nazionale e della tradizionale, doverosa commemorazione di ben altra tragedia.
Un caro amico e maestro mi fa notare che le semifinali si sono giocate di venerdì 13 e che gli americani, sensibili e superstiziosi, hanno fatto l’impossibile per evitare una data tanto infausta…
Facezie a parte, molti ritengono che la debacle fosse scritta nel DNA di una nazionale partita male e assemblata peggio, per via delle infinite defezioni e rinunce, più o meno cortesi, agli inviti di coach Popovich, al suo esordio da head coach in una competizione internazionale di questa portata. Fatto sta che #All-around.net ha sostenuto altre teorie, postulate sulla base di una semplicissima considerazione: assenze o meno, questi erano comunque 12 giocatori NBA, senza superstar, ma con due all-star ufficiali (Walker e Middleton), giovani e giovanissimi in rampa di lancio per diventarlo (Mitchell, Tatum, Brown), mixati con una pattuglia di veterani (Barnes, Lopez) e ottimi giocatori validi e svezzati dalle battaglie in NBA (Turner, Harris, Smart, Plumlee). Restavano, pertanto, sulla carta, i favoriti numero uno, ancor più della gettonatissima Serbia e della pur fortissima Australia, responsabile dei primi dubbi insinuati nelle nostre teste pensanti durante gli scrimmage pre-mondiali. L’unica, peraltro, ad aver più o meno rispettato il pronostico.
Non rinneghiamo nulla: durante il torneo cinese abbiamo visto evoluzioni e involuzioni di questa ciurma, sottolineato qualità e difetti, rimarcato i dubbi e ora, orfani della nazionale italiana (come al solito attenutasi al compitino da svolgere ma incapace di colpi di reni) e della selezione della “nostra” NBA, fatto un sommario giro sul web per farci un’idea dei commenti e delle domande ricorrenti da parte dell’utente medio, appassionato e non di NBA, vi offriamo il nostro punto di vista, quello di chi si è preso la briga di seguire passo passo #teamUSA dalla fase di selezione fino alla disfatta.
Lo faremo ricorrendo al metodo delle domande e delle risposte (FAQ: frequently asked questions), senza la presunzione di avere la verità nel cassetto, né di averne scandagliato i mille volti, ma aperti al confronto e alla critica.
- si è ristretto l’oceano atlantico? Sì, si è ristretto, ma non nel senso comune dell’affermazione. Non si è ridotto il gap tra il basket americano e il baloncesto. Le scuole cestistiche migliori restano quelle: la statunitense, la (pan)slava, cui si è aggiunta la cantera spagnolo-sudamericana da qualche decennio a questa parte. La qualità del basket e la continuità di sistema sono garantiti dal fatto che questo sport, come e più degli altri, è radicato nella cultura popolare nordmericana, dal playground al college, e sforna fenomeni ogni anno (leggasi Zion). Casomai è vero che il basket FIBA si sta americanizzando: dai giovani che, in numero sempre maggiore, si formano nei college, ai migliori fenomeni cestistici sempre più supervisionati dai talent scout delle franchigie NBA e protagonisti nei draft. Erano decine i giocatori NBA o ex tali nelle migliori nazionali del pianeta. Non tutti hanno fatto la differenza e non tutti i difference maker erano di scuola stars & stripes, ma la maggioranza sì. E questo è il frutto delle politiche di Stern, prima e di Silver, soprattutto, poi. Può non piacere, ma le cose stanno così.
- gli americani sono incapaci di adattarsi alle regole FIBA? Molti hanno sottolineato la difficoltà palese, ad esempio, nell’attaccare la zona e il centro area alla luce dell’assenza dei tre secondi difensivi. Visione molto parziale del problema: in NCAA si gioca a zona in modo quasi ossessivo, nello staff tecnico americano c’era un guru della zona come il coach di Villanova e, di zona, #teamUSA ha fatto uso e abuso, in particolare nella incoraggiante vittoria contro la (spenta) Grecia del “Greek Freak” Antetokounmpo, con ottimi automatismi, persino. C’è del vero, per carità, perfino i parquet sono differenti, così come la distanza della linea da tre punti dal canestro, lo sanno finanche i calciofili, ma non è storia recente: è così da sempre. Eppure le nazionali USA hanno (quasi) sempre dominato ugualmente a livello internazionale. Suona, pertanto, come una scusa ex post e poco altro: il basket è una lingua universale, solo assume accenti diversi, ma chi sa parlare in modo forbito non fatica a capire. Mai.
- qualità e tecnica, in NBA, sono state sacrificate sull’altare di atletismo e spettacolo? Anche questa storia era già vecchia quando andavo a scuola ed è rilanciata anche da tecnici ben più autorevoli e competenti del sottoscritto (Tavcar docet). Presi individualmente, Walker e soci hanno davvero poco da invidiare ai colleghi sul piano dei fondamentali: ma li avete visti palleggiare, arrestare, tirare, eseguire il catch & shoot, mettere in atto le tre minacce, difendere sulla palla? L’atletismo penalizza la tecnica solo nelle fantasie preconcette di qualcuno. E lo stesso mi sento di dire rispetto alle fasi di gioco: l’abuso di pick and roll o di schemi votati alla ricerca del tiro da tre punti, la desertificazione del mid range sono sotto gli occhi di tutti, ma su scala mondiale e non è certo Popovich tacciabile di alimentare il trend, anzi… Quello che è sicuramente mancato, però, è il primo dei fondamentali, insito nello spirito stesso del gioco: la circolazione di palla, l’attacco contro la difesa schierata; perché, questo è uno sport di squadra e vince chi fa più canestri. Sembrerà pleonastico, sed repetita iuvant…
- con le superstar, #teamUSA avrebbe vinto? Anche solo dubitarne indurrebbe a dubitare della lucidità di giudizio di chi scrive. Al netto degli infortunati (Durant su tutti, ma anche Thompson, Wall…), la presenza anche solo di un big man di livello (AD) e di un 3&D (PG) in più avrebbe annullato il gap di soluzioni offensive evidentemente pagato da questa squadra, mettendo a disposizione innumerevoli alternative ad uno staff tecnico di prim’ordine. A meno di non voler contestare anche la qualità di Popovich e Kerr (siamo perfino arrivati a leggere che il Pop sarebbe “bollito”…). Invece no: si son tirati indietro tutti, alcuni anche con supponenza e scarso rispetto per l’evento e per i compagni che avevano accettato.
- la nazionale era assemblata male? Pochi dubbi in merito. La selezione USA è stata frutto non di un concepimento volonario, ma una violenza, sottraendo a Popovich il ruolo di selezionatore e lasciandogli il compito di allenare un gruppo di autoconvocati, un corpo di volontari emerso per selezione naturale, non scelto da lui (con l’eccezione dei tagli di Young e Adebayo, forse frettolosa, a posteriori) e oggettivamente squilibrato tra i reparti, con un frontcourt ai minimi termini e la naturale vocazione allo smallball. Mancava, dichiaratamente, un go-to-guy destinato a macinare punti e a far suoi i palloni più scottanti, un risolutore. Mancava un vero intimidatore. Ciò che non sarebbe dovuto mancare è la circolazione di palla, vista la presenza di tanti esterni, ma quella è figlia del gioco…
- Popovich poteva fare meglio con questo gruppo? Si può sempre fare meglio, ma da qui a dare del bollito al Pop, ce ne corre… Non è facile prendere un gruppo non coeso e senza una logica se non, appunto, quella del volontariato e trasformarlo in una squadra. Il coach ha gestito spogliatoio e pressioni da par suo, difeso i suoi ragazzi fino alla fine, dichiarandosi orgoglioso di loro anche dopo la sconfitta, fatto da schermo alle provocazioni. Ha provato a correggere la rotta dopo lo scampato pericolo ottomano, conferendo alla sua squadra un’anima difensiva sulla quale non avresti scommesso un cent, ha saputo (certo con l’aiuto di assistenti d’eccezione) educarla alla difesa a zona, tirar fuori dalla second unit il meglio possibile, valorizzando lo smallball e facendone un’arma letale. Ciò che non ha saputo o potuto fare è stato dare un gioco al suo starting five, inamovibile dopo l’infortunio di Tatum (altra tegola niente male, non lo dimentichiamo!). Per cui la palla girava solo a sprazzi, lo spettacolo si accendeva solo in transizione/contropiede, i giochi per il lungo ridotti ai minimi termini, Joe Harris spremuto come difensore e scarsamente valorizzato come quell’eccellente tiratore che è (finisce con il miglior EFG% della squadra, ma con pochissime conclusioni a partita) e il necessario cambio di passo arrivava solo quando il Pop mandava in campo cinque esterni chiamando lo smallball: opzione tattica che vale quanto le altre, per carità, ma che non può essere l’unica, pena il pesante dazio da pagare al Gobert di turno. Dettaglio non insignificante: tutte le nazionali sono pervenute al mondiale dopo aver affrontato le qualificazioni, assemblando un gruppo, un nucleo, sul quale inserire, poi, i migliori, quelli impegnati in NBA o Eurolega, in vista della fase finale, in Cina. Tutte, tranne gli USA, che hanno affrontato i giochi Panamericani con una selezione di giocatori della G-League. Nessun gruppo già formato, nessun allenamento insieme prima del camp di agosto. Si partiva da zero, e si è visto. Per cui sì, si poteva fare meglio con questo gruppo, ma le attenuanti sono talmente tante da far quasi decadere l’ipotesi di reato.
- cosa non ha funzionato? Se in un mese o poco più non riesci a darti una fisionomia di gioco ben precisa, quando il gioco si fa duro, sono gli altri ad iniziare a giocare. Gli USA hanno vinto a mani basse, dopo aver cambiato il proprio approccio alle partite, dopo la rocambolesca e fortunosa vittoria con la Turchia, finché hanno affrontato nazionali oggettivamente inferiori. Al primo ostacolo vero, contro una squadra con un gioco definito e l’area ben coperta, hanno opposto ciò che hanno potuto (Mitchell, difesa, contropiede, aggressività), ma hanno infine dovuto arrendersi. Perché, se il tuo sistema fa leva su difesa e contropiede, oppure isolamenti, non puoi concederti errori (e invece contro la Francia di errori difensivi ce ne sono stati tanti) e devi avere il leader che sa far canestro quando conta. Ci sono due circostanze nelle quali avere una fisionomia di gioco delineata risulta sicuramente decisivo: quando affronti un playoff con gare ad eliminazione diretta e quando sei privo di una superstar capace di risolverti i problemi. In NBA, per intenderci, ai playoff si gioca al meglio delle sette: persa gara-1, hai tempo e modo per studiare le contromosse; quando si entra in clutch-time, se hai LeBron James puoi affidarti a lui e sperare di farla franca anche se il gioco latita. Se un giocatore del genere in campo non c’è, e la gara è secca, dentro o fuori, chi impone il proprio gioco vince e all’altro non resta che affidarsi agli isolamenti e sperare nella preghiera. Walker, spiace dirlo, al momento del dunque non si è dimostrato all’altezza di questo compito, degno solo delle stelle di prima grandezza.
- la Francia era più forte? Non scherziamo: Gobert, a modo suo, è la quasi superstar che gli USA non avevano, e, soprattutto, in un ruolo chiave nel quale la coperta americana era cortissima e il solo Turner, che si è difeso anche benino, si è ritrovato in un amen con due falli a carico. Fournier è un ottimo giocatore di NBA e stop, come tutti quelli a disposizione del Pop, De Colo è un funambolo eccezionale, uno che la NBA la meriterebbe, probabilmente. Batum un sottile e raffinatissimo guerriero, oso la bestemmia: un Duncan degli esterni e dei poveri, per QI, ma non certo un fuoriclasse; Ntilikina una promessa mancata. Tutti gli altri, onesti mestieranti. Nulla che, sulla carta, un roster di 12 giocatori NBA, quasi tutti titolari inamovibili, non avesse ampia scorta di talento per sconfiggere. Ma il punto sta tutto qui: gli USA erano un roster, la Francia, una squadra, capace di fare il suo gioco fino in fondo e di non scomporsi di fronte alle sfuriate dei singoli avversari o alle trovate tattiche estemporanee.
Se estendiamo lo sguardo alle altre e al mondiale in genere, un mondiale in cui Patty Mills sia, finora, l’MVP per acclamazione (nonostante un paio di topiche che gli sono costate la finale), colui che non figura certo tra le prime 10-15 PG della Lega, quello con un salario poco più di un terzo di quello di Kemba, per dire, deve far riflettere sul livello medio della competizione, quanto sull’occasione mancata da Mitchell e soci. Così come una finale tra due nazionali letteralmente issate sulle spalle da un centro trentaseienne e un altro, addirittura, con dietro di sè 39 primavere, entrambi dagli illustri trascorsi NBA, due lunghi modernissimi a dispetto dell’anagrafe e capaci di trattare la palla, chiarisce empiricamente di cosa #teamUSA avrebbe avuto un gran bisogno e l’importanza di una certa figura tecnica nella pallacanestro di oggi, come All-around.net ha enfatizzato in tempi non sospetti…
- la NBA è ancora la miglior lega al mondo? Si, per immutato distacco. È il mondiale stesso a testimoniarlo, benché, ad esempio, le rivelazioni Argentina, Repubblica Ceca e Polonia enfatizzino l’importanza, in tornei come questo, di spirito di squadra, combattività, spirito di sacrificio, esperienza. E lo affermo con il dovuto rispetto verso campionati di valore ormai consolidato, come quello spagnolo, o verso l’Eurolega e, ripeto non per la prima volta e né per speculazione retorica, verso scuole tradizionalmente eccellenti, come quella dell’area della ex Jugoslavia o quelle emergenti, che stanno lavorando bene nonostante la battuta d’arresto, come quella tedesca.
La stagione alle porte ha tutta l’aria di essere lì, sorniona, in attesa di dimostrare che l’NBA rimane ancora tutt’altra roba…
- e adesso? E adesso, c’è da scommetterci, qualcuno vorrà correre ai ripari, nonostante le minacciose dichiarazioni di Colangelo verso i renitenti alla leva. Già, perché tra un anno ci si sposterà di poco, geograficamente, ma di una galassia e più, per prestigio della competizione: alle Olimpiadi di Tokio sarà tutt’altra nazionale, con ben altri protagonisti, a rappresentare la bandiera a stelle e strisce e non c’è bisogno di leggere i tarocchi o consultare gli aruspici per immaginare la riedizione del redeem team. Allora le stelle torneranno al loro posto e sui cieli di Buenos Aires, Madrid o Parigi, vedrete, sarà di nuovo notte fonda…