Inutile girarci attorno: dopo il dicembre 2018, questo novembre ha rappresentato un pezzo di storia, una pietra angolare della recente epopea bianconera. Siamo solo a un quarto di stagione, ma questo è stato già il mese dello spartiacque, degli infortuni, della cuore gettato oltre l’ostacolo. Chiosavamo, nel numero precedente, sotto forma di auspicio e premonizione, che avremmo scritto di come i Nets potessero sconfiggere tradizione e scaramanzia, storicamente sfavorevoli nel mese dei morti. Certo, non potevamo presagire gli infortuni e le conseguenti lungodegenze di Levert e Irving!
Deja vù: come vittime di una maledizione, esattamente negli stessi giorni del drammatico infortunio di Levert nel 2018, si consumavano quelli di Irving e, di nuovo, di Levert; come se la favolosa off-season appena conclusa non fosse mai avvenuta, Atkinson si è ritrovato improvvisamente ad apparecchiare per un pranzo di gala avendo a disposizione solo piatti di plastica e hamburger, ovvero, fuori metafora, un manipolo di giovani scavezzacollo e veterani di complemento. Qui è venuto fuori, in primis, il carattere bianconero: il coach ha chiamato tutti a fare un passo avanti e tutti, ciascuno a modo suo, hanno risposto presente mettendo in campo ciò che avevano.
La cronaca, in breve. Ci eravamo lasciati, subito dopo il brodino caldo della vittoria sui Pelicans, in preda a tanti dubbi e ai piedi dell’aereo che avrebbe trasportato i ragazzi sull’altra costa, per un breve tour di trasferte, peraltro aperto bene, con la vittoria sui (all’epoca) derelitti Blazers: un trionfo di intelligenza tattica volta a isolare Lillard nella sua trance realizzativa e a mettere Irving e, dalla panchina, un ritrovato Dinwiddie, in condizione di trascinare la squadra al risultato pieno. Poi, però, si fece notte sui cieli di Ponente: batosta a Phoenix, poi due belle prove gettate alle ortiche a Salt Lake City e Denver, condite dalla beffa degli infortuni di cui sopra: a Levert, prima (lesione di un legamento del pollice destro e immediato intervento chirurgico: 6-8 settimane di fermo biologico) e a Irving, poi (sindrome da impingement della spalla destra: riposo e terapie fisiche e strumentali, salterà undici gare e sono tuttora incerti i tempi del rientro).
November rain. A seguire, i Nets si troveranno a far fronte anche all’assenza di DeAndre Jordan in un paio di occasioni, il che, sommato alla lungodegenza di Kevin Durant, ha proiettato Atkinson indietro nel tempo, a studiare il copione di un film già visto: squadra composta solo da role player, senza stelle, senza i principali architetti del gioco, senza l’artiglieria pesante e con una panchina corta, anzi cortissima, con Pinson improvvisamente catapultato, da organizzatore dei festeggiamenti in panchina, a backup della point guard, Claxton del centro, Musa a rappresentare (ben lontano dal meritarlo) una delle principali risorse della second unit.
Oscuri presagi, ma la classe operaia sa ancora andare in paradiso! Fosche nubi attendevano l’aereo dei Nets al ritorno sulla costa atlantica: esattamente nelle stesse date, lo scorso anno, Levert si dislocava la caviglia a Minneapolis, gettando la squadra nello sconforto e nella elaborazione del lutto per quasi un mese, prima della meravigliosa reazione griffata tra dicembre e gennaio; avremmo dovuto aspettarci qualcosa di simile alle otto sconfitte consecutive del 2018? Niente di tutto questo, perché il calendario è venuto in soccorso dei bianconeri, i quali ci hanno messo del loro, e le cose sono andate in modo un tantino diverso: prova di maturità a Chicago, in una gara rivelatasi più complicata del previsto; poi la solita débâcle casalinga contro i Pacers (avversario storicamente e tecnicamente indigesto), infine ecco prendere piede la favola bella di novembre…
Quasi dominio assoluto a scapito degli Hornets e dei rimaneggiatissimi Kings, adrenalinico successo al MSG nel secondo derby stagionale, vittoria gettata nel secchio dell’organico e riacciuffata per i capelli a Cleveland, quindi bilancio pari nella doppia sfida contro i Celtics, in cui ad un immenso Kemba (in gara 1) ha saputo rispondere, da par suo, uno che di salti di qualità nel momento del bisogno se ne intende per davvero, come Dinwiddie (nel ritorno al Barclays).
Sulle ali dell’entusiasmo, si è poi provato a mandare a casa col becco asciutto anche la squadra-rivelazione del primo quarto di stagione, gli Heat di Jimmy Butler ma, dopo 38 minuti quasi perfetti, il fuoriclasse ha fatto capire che aria tirava da quelle parti e, come se avesse un conto aperto alla drogheria di Brooklyn, ha di nuovo rapinato, quasi da solo (con Dragic a fare il palo) l’intero incasso. Pronto riscatto ad Atlanta, nella casa di Trae Young, con una prova corale e di resilienza da incorniciare… Il resto sarà storia del prossimo #stillawake.
Bilancio di un cielo senza stelle? 7-3 (addirittura 8-3 mentre chiudiamo l’articolo)! Davvero un signor bottino mentre Irving, più volte dato in procinto di rientrare, sembra dover aspettare ancora una settimana o due. Ma questa è già un’altra storia e con un’altra ambientazione…
Perché tanta fretta, vi chiederete, nel racconto di un cammino sorprendente, a tratti esaltante, che meriterebbe ben altra narrazione? Perché, vi rispondo io, la mission di #stillawake non è quella di raccontare partite ormai già viste e commentate ovunque, bensì quella di dragare i fondali del fiume sempre in piena delle cronache di Brooklyn, descrivendovi il sapore delle tante nottate insonni vissute in diretta e il backstage, riletto nella sempre originale chiave personale del commentatore. E poi l’analisi, per capire non solo cosa accade, ma anche il perché.
Sotto, allora, ma prima occorre uscire un momento dal parquet, per scoprire che una stella splende di luce propria non solo quando è notte e il cielo le appartiene…
Irving, ovvero la grandezza del personaggio e la banalità del bene. È prerogativa dei grandi far parlare di sé anche quando assenti e Kyrie Irving, non a caso, è uno dei giocatori più chiacchierati al mondo. A Boston, ad esempio, non hanno proprio digerito il fatto che abbia cambiato idea circa la permanenza in maglia verde, né che non abbia saputo risolvere, da solo, tutti i problemi tecnici e di spogliatoio dei Celtics dello scorso anno, ed hanno premeditato di subissarlo di improperi sui social e al TD Garden, nonostante l’assenza forzata. Il fondo, certi tifosi bianco-verdi, lo hanno toccato affiggendo manifesti con l’immagine di Kyrie e la didascalia cubitale “codardo”. Un insulto degno di ben altre circostanze, non certo sportive, francamente di cattivo gusto ed offensivo, cui, giustamente, il giocatore ha risposto, sui social, invitando i responsabili, in sintesi, a pensare a cose più serie e a rilassarsi godendosi lo sport. Comportamenti propri di realtà provincialotte, più che di una franchigia gloriosa e di una città in cui si respira sport e si vince tanto, anche.
Al di là delle interpretazioni di parte, i fatti parlano da sé: Uncle Drew ha saltato già undici gare a causa della spalla dolorante, non certo solo quella; i suoi compagni attuali lo hanno sapientemente vendicato al Barclays due giorni dopo; quasi a voler spegnere le polemiche, uno dopo l’altro, i suoi vecchi teammates sono andati ad abbracciarlo affettuosamente al termine della sfida.
Punto e a capo, direi, a meno che l’odio non sia preconcetto.
Anche a Brooklyn, però, vista la reazione positiva della squadra in sua assenza, sono strisciate illazioni tanto sul rapporto con gli altri ragazzi, quanto, soprattutto, sugli “effetti collaterali” di Irving sul sistema di gioco di Atkinson. C’è del vero? Analizzeremo insieme, più avanti, le novità tattiche e i miglioramenti fatti registrare dai bianconeri con Irving off the court, ma la mia risposta è un secco no. Provo a motivarlo.
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Il record dei Nets recita 4-7 con Kyrie in campo è vero. Ma è il record di una squadra rinnovatissima, chiamata ad adattarsi ad un tipo di PG completamente diverso da Russell e che stava iniziando a mostrare i primi, timidi e discontinui segnali di miglioramento sul piano del gioco proprio nel momento del forfait di Irving: attacco super-produttivo, per quanto ancora troppo sdraiato sulle soluzioni individuali del fuoriclasse, difesa balbettante a dir poco, ma in progress, potenziale enorme e sotto gli occhi di chiunque, almeno tre sconfitte evitabilissime che avrebbero letteralmente capovolto la percezione dei fatti. Può bastare, per concedere a Kyrie il beneficio del dubbio?
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La perdita di punti complessivi nelle mani dei Nets (da 117 a partita con lui in campo a 106 dopo il suo infortunio) e la sconfitta bruciante nel finale con Miami parlano chiaro: mancano la personalità di Irving, i suoi trentelli, i suoi momenti clutch. Butler avrebbe avuto ben altro sangue da sputare per fermare il numero 11. Perché, poi, la palla a canestro è un gioco più semplice di quanto si creda: bisogna metterla dentro, e nessuno è capace quanto lui, in questo. Sbagliato (Boston docet) aspettarsi miracoli da lui e, al suo rientro, bisognerà lavorare soprattutto su questo (giocare con lui e per lui, non aspettare la sua preghiera salvifica), ma avere le sue soluzioni nei tanti finali convulsi che aspettano i Nets (come in ogni stagione a mia memoria) è decisamente meglio che non averle. Ovvero, la banalità del bene. Perché, quando sei un fuoriclasse, hai tanto ancora da dimostrare ai detrattori, hai voglia di vincere e QI cestistico, presto o tardi la chimica la trovi. Le vittorie messe insieme in sua assenza sono state un gran bel segnale e una prova di cuore e coraggio da parte dei ragazzi, ma sono arrivate per lo più contro squadre perdenti e non sempre in modo tecnicamente “pulito”. Ergo: ce la si è fatta nonostante l’assenza del campione, non certo grazie ad essa!
Dinwiddie-Allen ma non solo: le chiavi del successo. Torniamo di corsa sul campo, perché succedono cose interessanti: leggendo la carta dei vini, i Nets, orfani delle loro star, non figurano certo tra i più pregiati e anzi, stando alle recensioni, sanno piuttosto di tappo; è normale, pertanto, che i degustatori (noi per primi) avessero riformulato le aspettative sui Nets, alla luce dell’organico a disposizione. Era tutta da dimostrare, ad esempio, la superiorità di Brooklyn rispetto alle avversarie di seconda fascia che ne hanno affollato il calendario mensile… Bene: Dinwiddie e soci lo hanno, semplicemente, fatto, perdendo male solo da Indiana (ma, con la squadra al completo, non è che fosse andata molto meglio), cedendo il passo (ma giocandosela alla pari) solo a Celtics e Heat, vincendo tutte (e sottolineo tutte!) le sfide contro le squadre dai record perdenti. Talora si è faticato più del dovuto, a tratti si è dominato ma, nel complesso, una tale continuità di risultati sta a significare che i Nets hanno letteralmente imposto la legge del più forte: non era affatto scontato (anzi…), né facilmente pronosticabile, neppure per il più ottimista dei tifosi.
I meriti vanno ascritti a tutti, senza ombra di dubbio, e ne porterò le prove, ma la faccia del successo è senza dubbio quella di Spencer Dinwiddie, ancora una volta l’incarnazione della resilienza bianconera. Di lui abbiamo scritto tanto e prima di chiunque altro e non ci torneremo; pure, però, occorrerà dare un’occhiata a ciò che sta mostrando qui ed ora, quando la squadra ha avuto bisogno di un leader da seguire e lui, tanto per cambiare, ha risposto “presente” con voce grossa come non mai.
Come fosse la cosa più naturale del mondo, ha dismesso i panni del sesto uomo dal rendimento a dir poco altalenante, si è caricato la squadra sulle spalle ed ha messo insieme cifre (25+7) tali da valergli (ennesima prima volta della sua ancor giovane carriera) la palma di player of the week della Eastern Conference. Carisma e personalità seconde a nessuno, primo passo bruciante e, se possibile, in ulteriore sviluppo, macchina da pick and roll se ce n’è una, han provato a fermarlo in ogni modo, disegnando schemi difensivi solo su di lui: raddoppi sul palleggio, trappole, intasamento dell’area, matchup… E niente: lo fermi solo col fallo. O se sbaglia lui. O se ti chiami Jimmy Butler. Intesa perfetta con i compagni, crescente quella con Jordan, addirittura simbiotica con Jarrett Allen (non a caso letteralmente esploso da che fa coppia con lui lungo l’asse play-pivot), mortifero nella disgraziata evenienza in cui la difesa accetti il cambio col lungo. Sorprendente, infine, anche in difesa, dove appare migliorato tanto sui blocchi, quanto in scivolamento e in post. Non aggiungiamo altro per non trascendere nell’idolatria, ma varrà la pena di ridargli un’occhiata, se non lo avete già fatto, prima che Atkinson sia costretto a richiamarlo in panchina per fare posto a uno più grande di lui.
Allen sembra un altro giocatore: più accurato nelle chiusure, più solido e continuo a rimbalzo, più aggressivo sotto le plance avversarie, più intelligente nel prendere posizione in post up, più efficiente nelle conclusioni, più rapido e coordinato nelle rotazioni e nei closeout, ha fatto registrare, mentre scriviamo, l’undicesima doppia-doppia (praticamente una gara sì e una no) ed è divenuto il più efficiente realizzatore della Lega; i suoi banali errori in appoggio o in sottomano, quasi un lontano ricordo. Molto ha a che fare con i giochi a due con Dinwiddie: chi guarda le partite ha la sensazione che i due si intendano telepaticamente sulla direzione che prenderà il drive, il lungo avversario si trova “intrappolato tra due basi” per via del sapiente posizionamento di the fro, il che si traduce in un drive di SD o in uno spettacolare alley-oop per la schiacciata del #31. Il fiore bianconero, sbocciato miracolosamente nel gelido asfalto dell’emergenza, ha sviluppato le sue radici lungo l’asse di ferro tra questi due.
Da qui occorre partire sempre, per analizzare il gioco della versione operaia dei Nets. Perché il fiore può anche sbocciare quando e dove non te lo aspetti ma, per non sfiorire e crescere, anzi, rigoglioso, occorre che venga annaffiato e che api sapienti e laboriose ne traggano nettare impollinandolo. Eccoci, dunque, alla vera chiave del successo novembrino: le tante alternative offerte dai giocatori che si muovono intorno all’asse privilegiato di cui sopra. Harris (non è una novità), Temple, promosso titolare, e Prince (meno prevedibili) hanno portato un contributo decisivo in termini non solo di punti, non solo di difesa (più sincrona e funzionale, più tenace off the ball) ma anche e soprattutto di circolazione e creazione del gioco: chiuso o raddoppiato SD, i tre in questione hanno sviluppato tutti, a loro volta, la capacità di costruire gioco dal palleggio, guidare la transizione o il pick and roll, andare fino al ferro, non fornendo alle difese punti di riferimento.
Il fatto nuovo e più eclatante è questo: i Nets di novembre hanno avuto quattro potenziali point guard, contemporaneamente, sul terreno di gioco! Ciò ha senz’altro costretto la squadra a cercare l’uomo libero con più pazienza (PACE 105,68 con Irving, sceso a 100,38 dopo il suo infortunio), ad abbassare i ritmi e ridurre il numero delle conclusioni (92,5 FGA vs 87,1), ma ha consentito anche di migliorare drasticamente l’efficacia dei passaggi (23,1/17,2 As/TO vs 24,8/14,9) senza perdere significativamente efficienza in attacco (52,8 EFG vs 51,4). Il tutto mentre calavano a picco le medie degli avversari (119,5 ppg vs 106,1; 45,8 FG% vs 42,3).
Il più fulgido esempio di quanto appena descritto, forse, è quello della partita appena vinta a Charlotte, proprio mentre chiudiamo l’articolo: un Dinwiddie non brillantissimo in fase realizzativa si mette al servizio dei compagni confezionando 12 assist (massimo stagionale, per lui) e, guarda un po’, Harris ne mette 22, Prince 16, Allen e Jordan chiudono entrambi in doppia-doppia, riforniti da un season-high di squadra di ben 35 assist su 42 canestri dal campo!
Un giocattolo quasi perfetto che il rientro delle guardie titolari non dovrà sfasciare, bensì implementare in termini di punti, continuità di rendimento, freddezza e lucidità quando la palla scotta. Dicembre e gennaio, in tal senso, rappresenteranno il battesimo di fuoco, quello vero, per Kenny Atkinson, chiamato a iniettare nel sistema le robuste dosi di talento al momento ferme ai box, superando le incertezze delle prime uscite e facendo detonare le infinite potenzialità dei Brooklyn Nets. Se saprà mescolare nelle giuste proporzioni collettivo e individualità, avrà il cielo come limite…chi fermerà la musica?