In NBA nulla è affidato al caso. È una macchina da guerra mediatica e finanziaria in cui ogni mossa, specie se destinata ad avere ampia risonanza, è calcolata nei minimi dettagli dopo averne previsto le conseguenze (non chiedetemi di Morey: a questo punto sarebbe un colpo basso!).
Voglio cogliere l’occasione per ricordare al mondo dei lettori di All-around.net che questa è l’eredità del trentennale lavoro di David Stern, illuminato, geniale, rivoluzionario commissioner della Lega recentemente scomparso a seguito di un’emorragia cerebrale. Stiamo parlando di un dirigente che ha raccolto dal mitico Larry O’Brien il timone della National Basketball Association in tempi in cui, nonostante superstar destinate a restare nell’immaginario collettivo per generazioni (Magic, Kareem, Bird solo per citare i più noti), stentava persino a garantirsi la copertura televisiva per le Finals, figurarsi entrare nelle case e negli interessi di qualcuno oltreconfine. Certo, l’era dello streaming non era neppure nelle fantasie di Stanley Kubrick e le dirette su Italia 1, la domenica mattina, con la voce inconfondibile ed esotica di Dan Peterson, iniziavano giusto allora a mostrarci un mondo del quale, poi, nessun futuro appassionato di basket avrebbe mai più potuto prescindere. Ma ripulire la NBA dalla piaga della droga, regalarle l’immagine accattivante, inarrivabile e, nel contempo, così suadente e familiare, farne un esempio da seguire, regolamentarla fino a renderla un modello anche per le altre leghe professionistiche, trasformarla in un prodotto di portata planetaria sia sul piano commerciale che, soprattutto, umano sono cose che vanno ben oltre i compiti di un buon quadro aziendale: sono impronte indelebili che elevano la figura umana al disopra dei comuni mortali. L’urne dei forti ti riservino un posto e la terra ti sia lieve, piccolo grande uomo: senza il tuo lavoro, probabilmente, io non scriverei di basket e la mia vita avrebbe un senso diverso!
Adempiuto al mio doveroso omaggio (credetemi: tutto, fuorché retorico), torno al punto: se Kyrie Irving esce ai primi di gennaio con una conferenza stampa sulle proprie condizioni di salute, non è frutto del caso e lascia il segno. Partiamo dai contenuti: sta meglio, ma ha ancora una marcata limitazione funzionale a carico della spalla destra, che gli impedisce l’abduzione ai massimi gradi. Fuori dalla terminologia medica, la sua borsite non gli consente di tirare senza provare dolore. Riuscite ad immaginare qualcosa di peggio, per un cestista? Dopo aver tentato la strada delle terapie non invasive, con scarso successo (al punto di definirle, in pratica, tempo perso), è dovuto ricorrere alla terapia steroidea infiltrativa, con beneficio, sì, ma non abbastanza da permettergli neppure di pensare al ritorno in campo, e tanto da prendere in considerazione, senza escluderla, la soluzione chirurgica, vista come la più lunga ma potenzialmente risolutiva.
Restando fedele alle cinque W anglosassoni del buon cronista, resta, ora, da analizzare il perché, inteso tanto come motivazione, che come possibili conseguenze. I Brooklyn Nets stanno assaggiando solo da pochi mesi le luci della ribalta ma, se c’è un ambito nel quale godono già da alcuni anni del rispetto di tutto l’ambiente, quella è l’organizzazione. Difficile che lo staff più organizzato di una Lega super organizzata non abbia soppesato i pro e i contro di dichiarazioni di questo genere.
Proviamo, allora, a dedurne cause ed effetti:
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Troppe voci del tutto fuorvianti, illazioni sulla salute psichica di Uncle Drew, accuse di codardia mossegli dalla città della sua ex-squadra (tifosi e, appena più velatamente, anche commentatori) aspettavano da tempo una risposta chiara e definitiva: questione di immagine, dunque, benché potesse essere affrontata anche molto prima;
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La scelta della tempistica: Irving si è fermato da oltre un mese e mezzo, un mese prima dell’apertura ufficiale del mercato, alla deadline manca un mese, dunque le franchigie sono, immaginiamo, tutte impegnate a sondare i possibili scambi. Cosa sposta sapere, in questo momento e non prima, che Irving resterà fuori, anche volendo escludere la chirurgia, ancora per molto tempo? Parecchio, sia sul fronte interno, sia su quello esterno. La squadra sa di dover fare a meno della sua star, di doversela cavare da sé, sa di avere le rotazioni cortissime, benché Levert sia tornato (ancora con minutaggio ridotto) e Claxton sembri prossimo a fare altrettanto. Qualcosa si è già mosso, con il taglio del povero Nwaba e del two Way contract Henry Ellenson per far posto alla PG Chris Chiozza, pescato dall’affiliata dei Wizards in G-League. Resta uno spot da riempire, ma la sensazione è che i Nets puntino sì, ad allungare le rotazioni per far respirare Dinwiddie e soci e preservarli dal rischio di infortuni, ma soprattutto al futuro. D’altro canto, le avversarie immagineranno che i Nets ridimensionino le aspettative per questa stagione e guardino alla prossima per il lancio della coppia potenzialmente devastante Irving-Durant. Nel mondo della Major League, i Nets, oggi, sarebbero visti come sellers, cioè come potenziali venditori di assets. Non in cambio di nulla, of course…
Capitolo salary cap e 2021. Il worst case scenario vede le due star fuori fino a ottobre prossimo, quando si cercherà di presentare tanto loro tirate a lucido, quanto la squadra pronta a beneficiarne, puntando ai massimi traguardi possibili. Difficile, dunque, immaginare i Nets 2020 disperatamente a caccia dei playoff e, ove riuscissero in un’impresa come quella della scorsa stagione, è verosimile che ciò accada in regime di autarchia. Ancor più difficile (ma questa è un’opinione personale), immaginare Sean Marks, narciso com’è, smantellare tutto quanto finora creato per andar dietro ad un’altra superstar sguarnendo il roster. È un uomo d’affari con il pragmatismo del caso e sono certo che non escluda a priori nessuna pista, ma non ce lo vedo in versione-Lakers, per intenderci, dar via, ad esempio, a Minnesota tutto il gruppo o quasi, pick future comprese, per aggiungere Karl Anthony Towns in ottica big three. Se conosco un po’ il personaggio, me lo aspetto più “leninista” (del resto si chiama Marx, o giù di lì…), adottare una strategia da “compi un passo indietro per poi farne due avanti”: sii, cioè, pronto a compiere scelte dolorose ora, purché portino i frutti migliori in futuro. A cosa mi riferisco?
Joe Harris è un giocatore ormai di prima grandezza, un utility player di razza e un tiratore micidiale, peraltro in scadenza. È vero, i Nets ne detengono i bird rights, ma comunque finirebbe in free agency come unrestricted a luglio: può l’intervista di Irving convincere la concorrenza che i Nets siano rassegnati ad un fine stagione interlocutorio? Si, può, e questo potrebbe massimizzare la domanda per uno dei capi più pregiati dell’atelier bianconero (non posso escludere anche per altri), assicurare una contropartita la più corposa possibile (prime scelte future?) e permettere di risparmiare il bel gruzzolo che Harris chiederebbe per restare. Gruzzolo utile, ad esempio, per estendere Jarrett Allen, in procinto di entrare nell’ultimo anno del suo rookie contract. Tenere Harris farebbe felici compagni e tifosi tutti, ma significherebbe andare in luxury e nemmeno di poco, ingessando il mercato: improbabile che Marks si leghi le mani in questo modo.
Azzardato legare la figura di Stern al bollettino medico di una star e al mercato del re delle triple? Forse. E magari anche un po’ fantasioso. Ma certo molto meno che dare alla suddetta star del vigliacco o del malato di mente. E anche, permettete, un tantino più etico.
Stay tuned!