Poche partite, tante indicazioni deducibili dal mese di febbraio dei Brooklyn Nets: record pressoché in linea col resto della stagione (5-7), meglio di gennaio ma su un calendario non impossibile, andamento sincopato, vittorie esaltanti alternate a cadute rumorose…Insomma, un altro mese sulle montagne russe.
Fin qui, nulla di nuovo: la discontinuità è scritta nel genoma dei Nets targati Atkinson. Le novità non le troverete nel copione ma, semmai, negli attori protagonisti: sarà, questo, l’antipasto del nostro tradizionale resoconto mensile.
Il primo piatto, invece, verterà sull’analisi: uno spaccato su ciò che ha condotto la ciurma di Atkinson ad un filotto di risultati più che positivi intorno (soprattutto prima), alla pausa per l’ASG e ciò che, invece, ha contribuito al tracollo di fine mese, proprio nelle gare contro le dirette inseguitrici. Partite che, avessero avuto altro esito, avrebbero, invece, potuto archiviare e mettere sotto chiave il posticino ai playoff.
A seguire, il secondo sarà a base di prospettive, sia per la stagione corrente che per il futuro; pietanza alla quale abbinerò il dessert agrodolce che vorrò servirvi in coda, con alcune considerazioni personali dal retrogusto tanto amaro, perfino per lo chef, che avrà bisogno di robuste dosi di caffè per essere digerito e che mi auguro di poter togliere dal menù nell’arco dei prossimi tre mesi. Perché parlarne ora? Perché, a mio avviso, una riflessione pure conviene farla per tempo, ora che la post-season è ancora oltre la linea dell’orizzonte e la classifica, nonostante il record langua ben al di sotto del pareggio di bilancio, garantisce ancora sonni relativamente tranquilli.
Procediamo con ordine. Mettetevi comodi, versatevi due dita di bianco: il servizio sarà celere!
Insalate di matematica: cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia. Si è fermato Kyrie Irving ad inizio mese, dopo uno scontro (fortuito?) con Bradley Beal e pareva roba da poco, per cui ci aspettavamo di rivederlo in campo dopo la sosta. Come un fulmine a ciel sereno, invece, la notizia ufficiale: per il riacutizzarsi dei problemi cronici alla spalla destra, Irving è costretto a ricorrere alla chirurgia (artroscopica, proprio mentre chiudiamo l’articolo). La prognosi è ormai acclarata: out per il resto della stagione, uncle drew andrà a fare compagnia in infermeria all’altra stella Kevin Durant (il quale, in realtà, sta facendo passi da gigante), in sostanza rinviando il suo vero debutto alla prossima stagione, ormai guardata da addetti ai lavori e tifosi come una sorta di terra promessa spazio-temporale e che, invece, sarà un Bengodi tutto da costruire. Il Kyrie che abbiamo visto quest’anno, devastante individualmente, “work in progress” come uomo-squadra, è stato, per restare in tema, solo un piccolo assaggio, buono appena per stimolare il nostro appetito. Fuori anche lui, è come chiedere ai Sixers di fare a meno di Simmons ed Embiid, o, se preferite, ai Warriors di arrivare ai playoff senza gli splash brothers: chi si aspettava una sostanziosa carbonara sulla tavola imbandita da Marks per la stagione in corso, mancando l’ingrediente principale, si è dovuto accontentare di una gricia, come lo scorso anno ma senza neppure il pepe portato da D’Angelo Russell. Difficile prospettare qualcosa di meglio o di diverso da un onesto barcamenarsi in linea di galleggiamento.
Tra l’altro, l’uscita di scena di Irving è fortunatamente coincisa con il ritorno sui suoi standard di un fantastico Caris Levert, autore di sontuose e dominanti prestazioni che ne hanno fatto il leader indiscusso, non solo in chiave realizzativa. Sono tornati a salire gradualmente di giri, dopo una preoccupante flessione nei mesi precedenti, anche Temple e Prince, giovandone la circolazione di palla e le percentuali dall’arco, nonché una fase difensiva a tratti sorprendente, al punto da essere indicata, da giocatori e coach, come l’anima identitaria della squadra. La panchina, inoltre, dopo essere stata un vulnus clamoroso durante i primi mesi, ha fatto registrare una crescita di rendimento sostanziosa, grazie all’intelligenza e al lavoro sporco di Chandler, all’ascesa e al ritorno sui suoi standard di DeAndre Jordan e alla rivelazione Luwawu-Cabarrot (che ha raggiunto lo zenit nella larga vittoria sul campo degli Hornets, ove è stato addirittura top scorer).
Tutto bene, dunque? Macché! Sempre a proposito degli altri ingredienti, Jarrett Allen, dopo una serie di doppie doppie, ha visto calare vertiginosamente rendimento individuale e minutaggio e la difesa, giunta al picco di rendimento a cavallo dell’ASG, è poi miseramente crollata al momento del dunque, dal terzo quarto con Orlando in poi, perdendo completamente la bussola in quel di Atlanta.
C’è, poi, da chiedersi come mai, malgrado tanti progressi, il bilancio mensile si ancora negativo e la striscia, a fine febbraio ancora aperta, di quattro L consecutive, tutte potenzialmente evitabili. Occorrerà passare al primo piatto…
Penne lisce al sugo di consistency. C’è stato, obiettivamente, un prima e un dopo la pausa per l’ASG, in cui, sia detto per dovere di cronaca, i rappresentanti bianconeri (Dinwiddie allo Skills Challenge e Harris al Three Point Contest) sono rapidamente usciti di scena. Alla kermesse di Chicago, i Nets sono arrivati forti di una striscia 6-2, durante la quale sono emersi alcuni dettagli tecnici che daranno sapore al piatto e che, in parte possono motivare il balzo in avanti. Dopo la settimana di pausa e due partite interlocutorie (combattuta sconfitta con i Sixers e larga vittoria a Charlotte), ecco Brooklyn precipitare nuovamente nello sconforto, gettando alle ortiche partite già vinte o rimontate. Anche qui, alcune personali osservazioni che andranno, spero, oltre quelle alla portata dello spettatore più distratto, e dalle quali prendere spunto per le succose pietanze che vi servirò nel prosieguo.
Resta il dato: appena il gioco sembra ritrovato e i risultati ne conseguono, basta un niente per tornare a sprofondare, perché la sindrome da coperta corta torna a fare capolino e, quando si riescono a coprire i piedi, finisce per restare al freddo la testa. La consistency, ovvero la continuità di rendimento durante l’arco della singola partita, come della stagione, resta una chimera e sembra proprio non attaccare, sulla superficie liscia dei Nets.
Durante la prima metà di febbraio, nel contesto di un gioco più fluido, sono emersi spunti tattici interessanti che hanno contribuito al raggiungimento di buoni risultati.
In primis la difesa: in particolare nell’uno contro uno e sui blocchi, con una inusitata tendenza a “passarvi sopra” che ha ridotto spazi e tempi per i tiratori avversari, inficiandone la pulizia di tiro. È forse l’aspetto più eclatante, molti dei cui meriti vanno addotti al rientro di Levert, ma anche al ritorno di Prince, e di Temple dalla panchina. L’uso sconsiderato della difesa a zona è stato significativamente ridotto, benché la scelta dei tempi sia risultata ancora lacunosa (usata poco e “a babbo morto” ad Atlanta, troppo e in modo discutibile a Miami).
In attacco, mi ha sorpreso la riscoperta del tiro dal mid range, con il jumper o il floater, da parte di Levert, ma anche Harris e Dinwiddie, punendo l’attesa dal lungo nel corridoio. Non che la “terra di mezzo” sia stata conquistata dai Nets che, anzi, continuano ad usarla pochissimo, tuttavia la crescita c’è stata e visibile ad occhio nudo, in diretta, il che ha contribuito non poco a rendere Levert pressoché immarcabile.
Prince e il sorprendente TLC hanno trovato continuità e pulizia attraverso schemi che prevedevano il loro rapido piazzamento in angolo, da cui sono cresciute le percentuali sugli scarichi: finanche nel corso delle ultime, sfortunate uscite, il loro corretto posizionamento e la conseguente spaziatura hanno giocato un ruolo, ad esempio nel losing effort contro Miami.
Un altro interessante esperimento ha visto esaltare le doti di passatore di DeAndre Jordan dal post alto, assistendo i tagli a canestro da parte degli esterni: un bel vedere e, sia pure misti ad alcune forzature, tanti assist e una sostanziosa alternativa quando i classici giochi a due sono stati ben affrontati dagli avversari.
Le note dolenti, al di là dei limiti strutturali, sono pesantemente saltate all’occhio durante la striscia negativa di fine mese. Una in particolare: i mismatch sono il dramma di fine febbraio, dramma che è fragorosamente emerso, costando il prezzo pieno, tanto contro gli Hawks che con gli Heat, squadre molto diverse fra loro, ma accomunate dall’uso di quintetti piccoli e dalla disponibilità di lunghi capaci di giocare anche lontano dall’area, come Collins e Olynyk. L’effetto è stato deprimente: Brooklyn non è in grado di sfruttarli a proprio vantaggio in attacco, ove, anzi, hanno prodotto un vistoso deficit di conclusioni pulite; soprattutto, li ha sofferti in modo imbarazzante in difesa, dove hanno fatturato canestri e, soprattutto, una messe di rimbalzi offensivi per gli avversari (25 nelle ultime due partite del mese!), quasi tutti puntualmente convertiti. E qui si pone un problema. Non l’unico, ma un problema.
Lo metto in caldo per poi servirvelo come dessert. Ora abbiamo un toro decapitato da cucinare e servire…
Pasticcio di toro. Il toro cui abbiamo, già dai numeri precedenti, tagliato la testa è quello delle aspettative per la stagione in corso. Lo andiamo ripetendo in modo ossessivo, come un mantra, fin dal primo stop di Irving: questo è un anno di transizione che, con lui, sarebbe potuto servire per affinare la chimica, permettere di lavorare sul suo inserimento, trovare l’equilibrio tra il suo gioco e quello di Atkinson. Fuori lui (con buona approssimazione, possiamo quasi dire che non ha giocato), manca un top scorer costante, un go to guy affidabile. Perché Dinwiddie non lo è: è un leader e si prende le sue responsabilità, ma non ha le stimmate del closer, come i finali contro Wizards e Heat hanno drammaticamente dimostrato. Levert invece non lo è ancora: manca ad entrambi soprattutto un tiro da tre punti continuo. Gli obiettivi realistici sono fare meglio possibile, caricare KD, individuare chi è degno di restare in una futura contender e chi no, compiere scelte, anche dolorose (un passo indietro per farne due avanti) per migliorare dove serve e mettere affianco alle due star una squadra da potenziale finale di Conference.
C’è tanto da dimostrare, ogni volta che si scende in campo, e ogni gara dev’essere una battaglia perché non c’è, sulla carta, avversario facile. Senza illudersi sulla possibilità di fare strada nei playoff, se non ci si arriva in uno stato di grazia fisico e mentale finora ancora persi in qualche scatolone dopo il trasloco dal ruolo di rivelazione a quello di squadra sotto i riflettori; ringraziando sempre di avere il vuoto alle spalle, ma un vuoto che ha saputo fare molto male ai Nets pochi giorni fa come in passato (i Wizards dello spocchioso e falloso Beal), per cui, occhio! Nella mia personale visione del quadro complessivo, i Nets hanno i mezzi per conquistare i playoff senza patemi e anche evitando i Bucks, per due ordini di ragioni: i finali di regular season, da che Atkinson siede in panchina, hanno sempre auto un trend positivo; il bagaglio tecnico e il coefficiente di talento complessivo dei Nets è largamente meritevole: se, alla fine dei giochi, è vero che la somma delle fasi meno brillanti e di quelle esaltanti è approssimabile allo zero, così come il bilancio della fortuna, e se è vero, come è vero, che la storia bianconera ha le fattezze delle montagne russe, torneremo a commentare altri periodi brillanti e questo dovrebbe bastare.
Il punto, piuttosto, archiviato un anno interlocutorio, sarà arrivare attrezzati alla terra del Bengodi. Ancora: il talento non manca, anzi sarà dura tenere tutti, forse impossibile; chi non resterà, potrà essere ghiotta merce di scambio. Irving recupererà ampiamente in tempo per la campanella, Durant forse anche prima, e tanto basta per avere tanta stoffa da cucire un “pennant” da appendere al soffitto del Barclays. Se, naturalmente, i timonieri sapranno fornire sarti e forbici adeguati alle due star. Pochi dubbi che i loro protetti, Temple e Jordan, resteranno: pur con qualche momento opaco, hanno entrambi largamente dimostrato di valerlo. Levert ha rifirmato qualche mese fa ed ha proprio tutto il necessario per essere il numero tre. Gli altri, coach compreso, faranno bene a corciarsi le maniche, perché hanno tutti bisogno di dimostrare ancora qualcosa.
https://youtu.be/vbJxNkNOElc
Sorbetto “afro” in carrozza. Allen è cresciuto in taglia fisica, difesa in post,
posizionamento, post up. Ciò in cui, pericolosamente, non è affatto cresciuto, è l’essere facile al fallo, inabile ad aprire il campo e a giocare lontano dal ferro oltre il consegnato per i compagni, a cambiare in difesa, a scivolare, nei closeout e, soprattutto, sul fronte psicologico. Per cui è facile a perdere rapidamente la sfida col dirimpettaio, la fiducia in sé e da parte del coach, che lo ha relegato, a febbraio, spesso in panchina nel quarto decisivo. Atkinson ha minimizzato, sbandierando fiducia in lui e nella sua crescita, ma il ragazzo è al terzo anno da rookie e viaggia verso il momento decisivo dell’estensione, con, in squadra, un lungo con caratteristiche di gioco non abbastanza dissimili, più esperto, più grosso, più bravo a fare gioco e quasi altrettanto a difendere il ferro (quando ne ha voglia) e ad intendersi con le PG. Sicuri che tenerlo sia la scelta giusta, con Claxton che scalpita dietro?
Certo, Allen ha ancora numeri migliori in termini difensivi e offensivi, ma la forbice si sta assottigliando: Jordan, quando ha voglia di giocare, ha poco da invidiare a chiunque nel chiudere in pick and roll e nell’occupare l’area; inoltre ha e avrà sempre, probabilmente, una dimensione offensiva in più, perché sa trattare la palla in post alto. Certo, mancano gli skills del centro moderno, ma le medesime lacune le mostra, senza aver dato speranza di saperle colmare, anche Allen. Inoltre (fattore non secondario), Jordan è tutt’uno con le star del prossimo anno e ne ha altri tre di contratto. Sicuri che i Nets possano permettersi di pagare altrettanto, o giù di lì, per un quasi doppione dalla crescita lenta e dalla fiducia labile?
In questo senso, la partita di Atlanta è stata emblematica: una delle pietre angolari della vittoria agevole dei georgiani è stata la versatilità di Collins e Reddish, con il primo che ha brutalizzato Allen giocando alto e lo ha poi punito sotto canestro ogni volta che questi ha accettato i cambi. Stiamo parlando di Collins…gran bel prospetto, ma non uno dei primi centri della Lega. Stessa scena, mutatis mutandis, a Miami ma, in un finale combattuto, è stato anche peggio: ogni qual volta la difesa ha provato ad accettare i cambi, JA è stato l’anello debole, creando il mismatch sotto canestro che ha regalato ai padroni di casa la seconda chance o il tiro agevole al palleggiatore, come accaduto, poi, sul canestro decisivo.
Non scopriamo certo adesso la difficoltà dei bianconeri contro avversari provvisti di centri moderni ma, in vista del Bengodi e di importanti, forse decisive, scelte contrattuali, sarà il caso di iniziare a pensarci. Oppure no?
Sotto col caffè, per le notti bianche di marzo, e col digestivo per un dessert tanto brutale. Sarò felicissimo di essere smentito dai fatti ma, di questo, non potremo che parlare nei prossimi numeri di #stillawake.
Stay tuned!
Marco Calvarese
edito da Frank Bertoni