#stillawake Aprile, dolce dormire, recita il vecchio adagio che, mai come quest’anno, purtroppo, si è materializzato sotto forma di incubo, costringendo tutti a casa. Il basket giocato ovviamente non fa eccezione, anzi è stato tra i primi a chiudere tutto, scottato in modo drammaticamente patetico dal caso Gobert e dai contagi rapidamente susseguitisi.
I Nets, dunque, esattamente un anno dopo essere tornati ad assaggiare il delizioso dessert dei playoff, sono di nuovo a casa, benché, mentre scriviamo, la Lega abbia autorizzato il ritorno nelle palestre, sia pure rigidamente regolamentato e, per ora, solo per sedute individuali.
Whatever it takes. Sgombriamo subito il campo dagli equivoci e apriamo una doverosa parentesi, prima di tuffarci in mare aperto: #stillawake è un mensile di approfondimento, opinioni e discussione su ciò che ruota intorno alla franchigia di Brooklyn, ma non si sottrae al dovere di cronaca sull’intera galassia NBA, ove occorra, soprattutto se inerisce il quesito-chiave intorno al quale ruota tutto il resto: ripartirà la stagione NBA? È possibile, anzi probabile, benché Adam Silver predichi, giustamente, prudenza e benché noi stessi, nel numero precedente, non vedessimo spiragli per una ripartenza. In un mese, tuttavia, succedono tante cose: Trump ha pubblicamente espresso parere favorevole, auspicando la ripresa degli sport professionistici. Subito dopo, la Major League ha approntato un piano di massima che, ultimamente, sta entrando addirittura nei dettagli, prevedendo perfino il superamento della storica divisione in American e National League, pur di dare inizio alle danze, definendo rigide regole d’accesso per garantire la sicurezza di protagonisti e lavoratori.
Le dichiarazioni di giocatori e franchigie di basket sono unanimemente concordi nell’auspicio di riprendere e portare a termine la stagione, arrivando, in qualche modo e anche con formule originali, ad assegnare l’anello. Siamo certi che ci siano numerose ipotesi al vaglio del commissioner, pronte ad essere elaborate in modo da farsi trovare immediatamente pronti alla cessazione del lockdown. La nostra sensazione, peraltro ampiamente condivisa, è che la morale sottesa alla giusta linea attendista sia “whatever it takes”, pur di non compromettere la stagione e i lauti introiti annessi (a questo proposito, rimandiamo gli interessati all’intervista concessa da Davide Pessina a #all-around.net pochi giorni fa), tutelando salute di tutti, immagine della Lega e incassi. Lo stesso LeBron è sceso in campo per perorare la causa e smentire l’esistenza di un gruppo di pressione, composto da agenti e proprietari, contrari a concludere la stagione. Difficile immaginare quando, fantasioso prevedere come, ma è lecito aspettarsi il finale col botto, dopo una trama del genere…
Bando alle ciance. Se ripresa sarà, i Nets si faranno trovare pronti, su questo ci sono pochi dubbi: il team di tecnici e sanitari a disposizione è di primissima qualità e tutti i giocatori si sono tenuti attivi, per quanto possibile. Se ripresa sarà, anche qualora prevedesse la proroga fino ad agosto, vedrà Jacque Vaughn al timone e Kevin Durant e Kyrie Irving in borghese a bordo campo. Non si discute. Vaughn ha raccolto la bollente eredità di Atkinson, il 7 marzo scorso, rispondendo brillantemente sul campo, con accorgimenti e correttivi ragionevoli e collezionando due vittorie, di cui una di prestigio a casa di sua maestà LeBron James; Marks ne ha elogiato lavoro, dedizione e rapporto con i giocatori: se si riparte, avrà la sua chance. KD ha dichiarato a più riprese che per quest’anno non se ne parla di rischiare: vero che, prima del lockdown, stesse facendo passi da gigante, ma è del tutto verosimile che il suo programma riabilitativo abbia subito un rallentamento e non saranno due settimane di training camp a issarlo di colpo fino alla forma-playoff. Per uncle drew, infine, erano previsti quattro mesi di stop dopo l’intervento alla spalla, il che significa almeno fino a giugno, ma rischiare per cosa? È chiaro a tutti che la stagione-chiave sarà la prossima e potrebbe anche iniziare in ritardo, permettendo alle due star ora ai box di presentarsi ai nastri di partenza tirate a lucido e con motori e gomme ben caldi. Stiamo certi che sarà questa la linea adottata. Il resto, è fuffa da bar dello sport.
Detto questo, è lecito partecipare al dibattito sulle scelte future, ma lo faremo spostando l’obiettivo della nostra cinepresa virtuale sul regista: è Sean Marks, prima ancora di tutti gli altri protagonisti, a giocarsi tutto in questa offseason.
L’edificazione del regno. Ex cestista e allenatore, allievo fedele della scuola-Popovich, Marks è assurto a ruolo dirigenziale solo nel 2014, sempre per gli Spurs, facendosi le ossa ai Toros, in G-League, per poi divenire assistant GM della prima squadra e fare il definitivo salto di qualità nel 2016, accettando di dirigere la difficile ricostruzione di Brooklyn, ormai ridotta in macerie dopo la fallimentare trade con i Celtics di tre anni prima.
In soli quattro anni, quell’arido terreno, desertico e incenerito, cenerentola e zimbello della Lega, è divenuto prima un modello da seguire, poi una squadra da playoff, infine una potenziale contender: Marks ha edificato un regno, il suo regno, dal nulla. Inutile ripercorrere nel dettaglio tutti i suoi passi, già arcinoti ai lettori di questa rubrica; basterà individuare i momenti di svolta, che ne hanno definito la traiettoria:
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le fondamenta: muoversi come un predatore nel sottobosco della lega di sviluppo, portando alla ribalta uomini-chiave come Joe Harris e Spencer Dinwiddie;
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i colpi di genio: pescare al Draft, con scelte acquisite e di terza fascia, due gioielli come Caris LeVert e Jarrett Allen. A questo punto, il core era ormai costruito;
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il salto di qualità: buttarsi nel coraggioso scambio Brook Lopez-D’Angelo Russell, fondamentale per il clamoroso ritorno in post-season;
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l’attestato alla carriera: accogliere Kevin Durant e Kyrie Irving, attratti dal progetto Nets. Ovvero le stelle mancanti e necessarie per pensare in grande.
Nel basket come nella vita, però, le posizioni di rendita sono destinate a durare ben poco; essere al timone di una bagnarola, e abbellirla e potenziarla, non è la stessa cosa che comandare una nave da crociera sotto i riflettori del mondo intero: il rischio di finire come il Titanic è dietro l’angolo, perché gli iceberg sono tanti e non è facile tenere la barra dritta, né l’equipaggio, molto più folto e prestigioso, sotto controllo. La scelta di separarsi da Atkinson, e di rompere un asse di ferro che pareva granitico, ne è la cartina al tornasole: il giocattolo più è raffinato, più è fragile e, piuttosto che lasciare che si rompesse, Marks ha preferito compiere la scelta forse più dolorosa della sua carriera, nell’interesse di tutti e, soprattutto, della franchigia per la quale lavora ma di cui lui è il principale artefice e responsabile.
Si tratta, adesso, di fare in modo che la strada tracciata divenga una rampa di lancio e che il suo giocattolo metta le ali e sia pronto al decollo. Si tratta di compenetrare l’esigenza di accontentare gli attori protagonisti, che dovranno assicurare il successo, con l’esigenza strategica di non perdere lo scettro del comando, di non affidare a loro timone, regia e chiavi dello spogliatoio. Non sarà facile, ma il geniaccio bianconero sa che sarà questa la sua prova del fuoco.
La ciurma. Anche qui, poche chiacchiere: le due star e DeAndre Jordan resteranno, forse anche Temple, essendo pianeta che gravita nell’orbita delle star. A conti fatti, non una cattiva scelta. La personalità di Marks, il suo orgoglio e anche un certo ragionamento logico suggeriscono che sia propenso a tenere, quanto più possibile, le sue creature nel branco: intorno ai quattro cavalieri, pure una buona squadra bisogna costruirla e farlo lasciando nel novero alcune pedine-chiave fedeli alla linea e alla canotta sarebbe senz’altro quel segnale di continuità di cui c’è bisogno per non disperdere il lavoro svolto e non lasciare il potere ai due assi. Ci sarà da fare i conti con i limiti strutturali della squadra e, probabilmente, anche con un salary cap amputato dal lockdown e, qualora non fosse possibile tenere tutti e quattro i suoi pupilli, Allen e Harris sono, dolorosamente ma con ogni verosimiglianza, i primi due candidati al commiato: sono i più immediatamente in scadenza, hanno mercato e per Harris si potrebbe prospettare una succosa sign & trade, come accadde per Russell lo scorso anno. Ciò non vuol dire che Dinwiddie e LeVert siano in cassaforte: Marks è un gambler professionista e dipenderà della domanda di mercato, tuttavia Spencer è molto più di un gregario, per personalità e spirito di iniziativa (dovremo tornare sull’argomento), LeVert il potenziale terzo violino. Insisto: secondo me resteranno. Tuttavia, sarà bene non disperdere energie in un ragionamento nulla più che speculativo finché non saranno definiti la scelta del futuro coach e il ruolo ritagliato per Durant.
Easy money sniper è la chiave. Dal rapporto con KD, finora vero convitato di pietra, passeranno le sorti di Marks. Durant è un giocatore speciale: potenzialmente, è in grado di spostare da solo le sorti della franchigia, il GM lo sa. Come rientrerà, quanto potrà rendere in campo e quanto tempo gli occorrerà per tornare vicino ai suoi standard di rendimento sono le domande decisive, non avendo risposta alle quali sappiamo in partenza di fare solo congetture sul futuro. Quel che sappiamo per certo (se mai si possono avere certezze commentando dal di fuori) è che Durant tornerà nella prossima stagione e avrà fame, tanta fame, perché ha qualcosa da dimostrare al mondo intero. Per accogliere la star nel modo migliore, distinguendosi dal comportamento dei Warriors che aveva definitivamente incrinato il rapporto con il giocatore, Marks dichiarò, da subito, che sarebbe stato il campione e non la società a dettare i tempi del ritorno: difficile credere che non accada altrettanto circa il suo ruolo in campo. Un 2,10 che tratta la palla e tira come una guardia, occupa l’area come un centro e vola a canestro come un’ala può fare qualsiasi cosa: sarà una point forward, un 4 tattico con licenza di costruire gioco e punti dal post o addirittura uno stretch five come da qualcuno prospettato? È credibile che la società decida senza ascoltare cosa ne pensa l’illustre interessato? O che le strategie di mercato non ruotino intorno a questa decisione, ivi compresa la scelta del futuro coach? Secondo noi, no. Ecco perché ritengo che il rapporto di Marks con KD sia la chiave: se ci sarà una collaborazione costruttiva, ne usciranno entrambi rafforzati. Bene ha fatto il falco neozelandese a fissare determinati paletti, entro i quali ci si aspetta che venga definita la figura del nuovo HC.
Da un guards’ whisperer a uno stars’ whisperer. Come sempre, le dichiarazioni di Marks vanno prese con le pinze e con beneficio d’inventario: occorre saperle leggere, e l‘unica certezza che ho è che la panchina dei Brooklyn Nets sarà la più ambita della prossima offseason. Potremmo riassumerne il succo così: il nuovo head coach deve essere capace di far compiere alla squadra il definitivo salto di qualità, sapersi connettere con le aspettative della società e con il lavoro dello staff e deve saper sussurrare alle stelle, non più alle giovani guardie (specialità di Atkinson).
Ovvio che i rumors sui possibili candidati si siano scatenati, concentrandosi su un ventaglio di papabili composto da personaggi di provati esperienza e palmares e che abbiano già lavorato con delle superstar, meglio se Irving e/o Durant. Tyronn Lue, a detta di tutti, parrebbe in pole position perché gradito a Kyrie Irving, già inquadrato come il vero deus ex machina della separazione con coach Atkinson. Bisognerà, però, vedere se la dirigenza sarà dello stesso avviso, alla luce anche delle pretese economiche dell’ex Cavs, ora assistente di Doc Rivers. Altre candidature forti finora emerse: Mark Jackson, Jason Kidd, Jeff Van Gundy, Tom Thibodeau (già da me endorsato, ma attualmente dato come candidato per l’altra sponda di New York), ovviamente Vaughn.
La mia idea resta immutata: più che da Irving, la scelta passerà da Kevin Durant.
Ma occhio, anche, ai movimenti di un’altra pedina niente affatto secondaria: Spencer Dinwiddie.
Dinwiddie è stato un pretoriano di Atkinson, ma fonti attendibili (Sports Illustrated) suggeriscono la sua frustrazione rispetto alle sue ultime scelte tecniche. La sua difesa del vecchio coach potrebbe, pertanto, essere stata, per così dire, tiepida. Dinwiddie, recentemente, ha acquisito il passaporto nigeriano ed è in procinto di partecipare alle prossime Olimpiadi con la nazionale africana, il cui coach è un certo Mike Brown: vi pare che i due non si siano sentiti, prima di arrivare a questa originale scelta da parte del numero 26 bianconero? Brown ha, nel suo curriculum, diversi punti a suo favore: è di scuola Spurs (il che, agli occhi di Sean Marks, ha sempre il suo peso), ha due anelli alle dita, un titolo di COY, ha sulle spalle diversi anni trascorsi nell’entourage dei Warriors (altro modello cui lo staff dei Nets non è insensibile), ha lavorato sia con Irving che, ovviamente, con Durant e, adesso, è verosimile che abbia una connection anche con Dinwiddie…
Suggerimento: aggiungete questo nome alla lista dei papabili e tenetelo d’occhio, perché non sarà agli ultimi posti della lista, tutt’altro!
Sia chiara, però, una cosa: la corona di sua maestà Sean Marks non è come il cilindro di un prestigiatore: è molto di più. Di doppi fondi in cui nascondere il coniglio non ne ha uno solo, per cui il nome inatteso è sempre dietro l’angolo e non è detto che non ci siano novità nel medio termine. Per scoprirlo, non avete che da continuare a seguirci.
Stay tuned!