Roma, 7 maggio 2020 – L’improvviso e brusco stop allo sport in Italia così come accaduto in quasi tutto il resto del mondo ha portato squadre, club ed addetti ai lavori ad interrogarsi sul futuro dell’attività sportiva professionistica soprattutto sul medio e lungo termine.
In realtà già da tempo è nata una vivace discussione su come rendere più interessanti i campionati a cominciare dalla Serie A di calcio maschile che, con le troppe disparità di livelli in campo, rischia di vedere l’interesse calare soprattutto sulla lunga distanza.
E dunque è più che lecito, per non dire opportuno, prendere in considerazione altri modelli che magari all’estero hanno ben funzionato. Perché quindi non considerare ad esempio il salary cap dell’NBA?
Il campionato della National Basketball Association è indubbiamente tra i più seguiti in ogni angolo del mondo ed ha un valore economico letteralmente incredibile. Tra le ragioni di questo successo probabilmente c’è il salary cap, introdotto nell’oramai lontano 1985.
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Sostanzialmente il salary cap può essere tradotto come tetto salariale nella nostra lingua. All’inizio di ogni stagione l’NBA infatti decide quale possa essere la soglia massima che ogni squadra può spendere per i contratti dei propri giocatori nel corso dell’intero campionato. Il tetto salariale vale verso l’alto ma anche verso il basso visto che ogni franchigia non può spendere meno del 90% del salary cap previsto.
Per la stagione ancora in corso il salary cap previsto è stato fissato a 109.140 milioni di dollari. Una cifra impressionante ancora più incredibile se si pensa alla cifra iniziale del 1985 che fu stabilita in 3.6 milioni. La crescita dunque è stata letteralmente esponenziale di anno in anno.
Si può facilmente comprendere come un tetto salariale con limiti sia verso l’alto che verso il basso porti ad un livellamento dei valori in campo sui parquet della NBA. Ovvio che poi la guida tecnica, la preparazione atletica e molti altri fattori tecnici, tattici e motivazionali possono fare la differenza ma quanto meno il punto di partenza di ogni squadra è all’inizio della stagione molto simile.
E’ dunque ipotizzabile esportare questo modello magari al nostro campionato di serie A che da molti anni vede soltanto una squadra vincere? Attualmente la risposta non può che essere negativa: lo sport in Italia è organizzato in modo molto differente rispetto agli Stati Uniti. Se prendiamo ad esempio proprio l’NBA, lì franchigie possono anche cambiare città e non esistono promozioni o retrocessioni.
Il modello del calcio in Italia è completamente differente, con le società strettamente legate al territorio ed il sali e scendi delle squadre da una categoria all’altra. Se dunque il salary cap dell’NBA non sia direttamente applicabile, al contempo potrebbe essere un punto di partenza o comunque uno spunto per trovare dei correttivi capaci di rendere più equilibrato e dunque più appetibile i nostri vari campionati.