L’alone di miticità dell’NBA è rappresentato dagli spot che mette in onda con i propri campioni, dal livello esiziale di alcune partite e da tutto quell’indotto che solo la stampa e la cultura americana sa trasmettere ad una competizione sportiva. L’esemplificazione di questo concetto è stata mostrata durante la partita di Natale che per tradizione è la migliore che la regular season possa offrire, o perlomeno, la più interessante e teatrale per quello che riguarda corsi e ricorsi storici. Lakers-Heat di Natale è stata ricoperta da un alone di rivalry che potrebbe riproposi a inizio giugno con il titolo del libro già pronto: “three peat against big three”.
Si aspettava il duello tra Kobe Bryant e Lebron James, ma quello che è trapelato dall’intricata trama del match, ci dice che il vero leader degli Heat è stato, è e sarà Dwyane Wade fino ad eventuale armageddon.
E i Lakers? Jackson è solo felice della sconfitta pesante rimediata dai suoi tra le mura amiche.
Si è parlato molto (fin troppo) di “the decision” e del Prescelto che porta i suoi talenti a South Beach. Impressionante la sua tripla doppia di grande cattiveria e fame sul campo dei campioni del mondo, ottima la comprensione del gioco e le letture difensive di un “freak of nature” che è in grado (se vuole) di condizionare le partite anche difensivamente con rotazioni e letture degne di nota; ma il protagonista vero è un altro.
Dwyane Wade ha una tranquilla dominanza sui match, con la caratteristica esclusiva dei super campioni, che non hanno bisogno di creare aspettative sulla propria partita, non vogliono mettersi in ritmo da subito a tutti i costi, ma sanno far venire la partita verso di loro, trafiggendo gli avversari nei momenti in cui fa più male. Marcato da Kobe, chiaramente stimolato dal confronto natalizio, l’ex Marquette gli permette a malapena di leggere la targa in un paio di occasioni, ridicolizzandolo con e senza palla. Wade domina il match pur segnando solo 18 punti, ma scavando il solco decisivo con l’inizio del secondo tempo e senza mai dare un minimo segno di sofferenza nonostante un ginocchio per nulla a posto: perché questo è un gioco per grandi, non per bambinetti trapiantati nel mondo adulto. Nessun fronzolo, gioco essenziale, spettacolo solo quando serve e una silente ma continua presenza immanente sul match. Possiamo continuamente citare i big three e per molti versi è lecito parlare di questo mostro a tre teste, ma come dice Geogre Orwell: « Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri » e senza l’animale Dwyane questi Heat non potrebbero mai avere velleità d’anello.
Dall’altra parte c’è Phil Jackson, quello che molto probabilmente è più uno psicologo sportivo che un allenatore tecnico, ma sta preparando il terreno per vincere il suo decimo titolo. E’ l’unico dell’entourage dei Lakers a essere intimamente e segretamente felice della scoppola presa dai suoi giocatori nel cosiddetto big match natalizio. Facciamo un rewind di un anno esatto: Lakers-Cavs del 25-12-2009 vede i futuri campioni del mondo soccombere pesantemente al cospetto di Lebron James e Mo Williams che diventano, come per magia, i favoriti per il titolo.
Mai sottovalutare le motivazioni dei grandi campioni e Jackson, nello stesso modo in cui l’anno scorso rivoltò la pesante sconfitta a suo favore, anche questa volta caricherà a molla l’ego di Kobe Bryant che ha giocato una delle sue peggiori partite per approccio mentale. A sua volta il Mamba motiverà i propri compagni non dandogli un singolo secondo di respiro. In una splendida intervista trasmessa durante la partita, Kobe ha detto che nel passato molti compagni non riuscivano a gestire la pressione che la sua personalità imponeva nel gruppo alla ricerca continua della perfezione. Ora il nucleo è diverso, i giocatori pretendono il massimo da loro stessi e siamo pronti a scommettere che Fisher e Gasol saranno i primi a reagire, perché due sconfitte casalinghe di questa natura non possono passare sotto silenzio, soprattutto se alla tua partita la meno famosa della prima fila è una scintillante Cameron Diaz.
Jackson ha sempre “immenso” rispetto per i suoi avversari, non perdendo l’occasione di stuzzicarli, ma siamo sicuri che i primi a subire la pubblica gogna e le frecciate al vetriolo saranno proprio i suoi giocatori. Ad inizio anno dipinge il ritratto di ogni effettivo del suo roster e con l’andare della stagione lo sfigura con tutte le pecche di atteggiamento, motivazione e concentrazione, mettendolo davanti alla propria coscienza come Dorian Gray ebbe il dispiacere di fare in tempi non sospetti. Godersi il sole e gli oleandri di Los Angeles, la maglia dei Lakers e la lotta per la vittoria, mette davanti a delle responsabilità serie e siamo certi che i ritratti di Kobe, Gasol, Fisher e Artest saranno sicuramente deturpati da una partita giocata con troppa poca fame.
Poi ci sarebbe quel mistero gaudioso che risponde al nome di Ron Artest, in grado con una mano di tenere a distanza un Lebron indispettito da un contatto vizioso e di volare volontariamente in mezzo alla prima fila dello Staples per recuperare una palla che nemmeno Inspector Gadget sarebbe stato in grado.
Nonostante tutto: grazie di esistere Ron.
Simone Mazzola