La scorsa notte, in Texas, i Nets sono scesi nella tana dei Rockets più o meno con le stesse probabilità di farla franca con cui i martiri paleocristiani entravano nelle arene dell’Impero per affrontare i leoni a mani nude. Ai lungodegenti Lin e Russell, infatti, in infermeria si sono rimasti Hollis-Jefferson (distorsione alla caviglia), Allen Crabbe (lombalgia) e, dulcis in fundo, DeMarre Carroll (problemi respiratori). Una carneficina che ha lasciato i bianconeri non solo senza guardie, ma anche privi dei loro migliori realizzatori. Alle rotazioni forzosamente corte, al gap di talento decuplicato dalle assenze, aggiungiamo che la ciurma di Atkinson era alla seconda uscita in back-to-back, reduce dal successo a Memphis… Cronaca di una sconfitta annunciata, insomma.
Se non che, per almeno 28’ di gioco, più che delle vittime predestinate, i Nets ricordavano il miglior Rocky Balboa: ne buscavano di santa ragione, storditi da un monumentale James Harden, sepolti da una pioggia di triple…Ma restavano in piedi. Gran merito va ascritto ad alcune prestazioni personali sopra le righe, un salto di qualità obbligatorio, se si vuole evitare di uscire dalla sfida contro i leader dell’Ovest con le ossa rotte ed il morale sotto i piedi; qualche altro, invece, va riconosciuto a coach Atkinson, i cui correttivi, per una volta, sono stati tempestivi, o quasi. Anche se, qualche scelta nelle rotazioni, nel finale, mi ha lasciato un retrogusto amaro.
Procediamo con ordine. Primo quarto giocato dai padroni di casa sui ritmi ad essi più consoni, con ottimo uso del corpo da parte di Capela nel portare i blocchi e dare ad Harden il vantaggio necessario per sprigionare il suo potenziale offensivo senza eguali. I Nets hanno ruotato su di lui Levert, Dinwiddie, Whitehead, Kilpatrick, nonché, occasionalmente, Booker, nel momento in cui Atkinson ha cambiato la difesa sul pick and roll scegliendo di accettare gli switch. Il risultato è stato sempre lo stesso: 20 punti nel quarto per il fuoriclasse di casa (saranno 37 alla fine), con percorso netto dal campo e ben 5 triple a segno!
Harden è un fuoriclasse tanto temuto e rispettato, e la sua furbizia nel procurarsi tiri…da 4 è talmente nota, che gli uomini alternatisi nel fronteggiarlo usavano un non convenzionale movimento per contestarne le triple: corpo spinto non fronte ad Harden ma lateralmente a lui, con il braccio esteso verso il volto del barba. Movimento innaturale, visto ripetutamente in partita, che non ha certo agevolato la difesa… L’unico apparso non in grado di coordinarsi per effettuarlo, non proprio uno specialista difensivo, è parso Kilpatrick. Suo, infatti, l’unico fallo su tiro da 3 fischiato ad Harden. Non l’unica sua pecca, come vedremo più avanti.
Con un Harden così, facile, anche per i compagni di squadra, trovare gli spazi giusti per finalizzare gli scarichi, quasi sempre dall’arco: quella di ieri è stata la gara con più triple complessive tentate in assoluto (89!). I Rockets ne hanno mandate a segno 20, tirando con il 40%. I Nets solo 10, monetizzando solo il 25% dei tentativi. In soldoni, la differenza tra le due squadre si potrebbe condensare tutta qui.
Superato, con naturalezza quasi disarmante, il ventello di svantaggio, i Nets hanno radicalmente modificato l’approccio strategico e tattico alla partita, non inseguendo più gli avversari sul loro terreno: in difesa si è vista, fin quasi a metà del terzo quarto una zona adattata. Si, avete letto bene: una zona oscillante tra 3-2 e 2-3 che aveva la funzione di sporcare le linee di passaggio ed inceppare i giochi a due. Tale difesa è stata alternata con passaggi a uomo, specie sul portatore, mentre i lunghi, a differenza che nel primo parziale, non andavano in raddoppio, ma restavano a presidio dei corridoi e del ferro. Nonostante la lentezza, Mozgov ha dato un gran contributo, e l’abnegazione sua, di Zeller e di Booker nel ruotare sugli angoli è stata encomiabile, i risultati ottimi, se è vero che l’efficienza offensiva dei reds di casa si è dimezzata.
Anche in attacco le cose sono cambiate: fuori i migliori tiratori, disponibile il solo Harris tra gli specialisti, Atkinson ha scelto di rallentare i ritmi con Dinwiddie at the point, di evitare il catch and shoot sistematico, di costruire mismatch ricorrendo ai pick and roll laterali ed ai blocchi ciechi. Esemplare l’adattamento di Levert e di Whitehead (gran prova di questo ragazzo, richiamato in fretta e furia dalla G-League: career high eguagliato a quota 24 e tanta sicurezza nelle scelte) nel leggere ed attaccare i cambi difensivi a loro favorevoli. Statisticamente, questa scelta si è tradotta in un maggior ricorso al drive o al tiro dalla media, in quella che, per i Rockets è una “terra di nessuno” tanto difensivamente, quanto, platealmente, in attacco (sbalorditiva la shot chart dei texani, con soli 2 tiri realizzati in tutta la partita nel vuoto cosmico tra l’arco dei 7,25 e le immediate vicinanze del canestro!). Parte del merito deve andare agli ottimi posizionamenti dei lunghi, con encomio speciale per Zeller ed il solito Booker, bravi anche nell’aprirsi per ricevere in angolo: dalle loro mani sorprendentemente morbide sono sgorgati i punti del clamoroso -4 ad inizio secondo tempo.
E poi? Poi succede che Mike D’Antoni sia tutto, fuorché uno sprovveduto, anzi… è un maestro per Atkinson. E, avendo lunghi trascorsi in Europa, un po’ di zona ne mastica: era o non era alla corte di un certo Dan Peterson, che della zona è stato uno dei padri? Avere il “barba” sul parquet, inoltre, aiuta non poco: lo abbiamo visto spezzare lo schieramento difensivo collocandosi al gomito, così come attaccare dal primo passo, ben sapendo che la ragione principale per cui la difesa a zona, nel basket pro USA, non attecchisce, risiede nel fatto che nessuno può presidiare il pitturato per più di tre secondi: troppo lenti nelle reazioni, forse anche troppo stanchi, Mozgov e Booker, per chiudere in tempo!
Così, il divario si è rapidamente dilatato di nuovo oltre la doppia cifra, la difesa bianconera è tornata tradizionale, le necessarie sostituzioni nel frontcourt non hanno trovato la stessa fortuna, né in difesa, né nei giochi d’attacco, con il risultato che il campo non è più stato aperto e la fluidità della fase offensiva si è arenata. Anche perché, fisiologica stanchezza a parte, un appunto, a coach Kenny, lo vorrei fare: perché tanto a lungo in campo Sean Kilpatrick e tanto tempo fuori, invece, Joe Harris? Il primo è forse l’unico giocatore a roster a non aver mostrato progressi rispetto alla scorsa stagione. Per di più, dà sovente la sensazione di non essere a proprio agio con i giochi offensivi del new deal brooklyniano. Ha tirato tanto, palleggiato ancora di più, costruendo molto poco e trasformando buone conclusioni in una serie di airball preoccupanti, prima di infilare una tripla (chiuderà con 3/12 dal campo).
In una fase in cui nessuno dei presenti sul parquet rappresentava una reale minaccia dall’arco, forse Harris avrebbe potuto dare un contributo maggiore. Ho avuto come la sensazione che Atkinson forzasse il minutaggio del buon Sean per consentirgli di recuperare fiducia nel tiro e ritmo-partita.
Ma questo, in una sconfitta annunciata, stavolta gli si può perdonare…