Ci sono leaders e… leaders. C’è chi studia per diventarlo, c’è chi possiede in modo innato le giuste doti che ti fanno entrare nella ristretta cerchia dei giocatori che – in campo e/o nello spogliatoio – hanno diritto di parola tanto da “convincere” i compagni a seguirti. Kevin Garnett, eclatante esempio di lingua lunga, ma soprattutto di giocatore talmente energico da trascinare con sè l’intero roster, lo staff tecnico e il pubblico, cambia radicalmente l’abito ai suoi Celtics quando riesce a stare lontano dagli infortuni, gli stessi che nelle ultime stagioni hanno tolto almeno un anello a Pierce&Co. Certo non amatissimo da chi è affezionato ad una delle altre 29 squadre, ma se il cuore ha spesso raddoppiato i battiti tifando prima T’Wolves e poi Celtics, non puoi non sentire la colonna sonora de “Il tempo delle mele” ogni volta che l’uomo da Farragut Academy si batte il pugno sul petto.
Dice Wade: “Noi non siamo i Boston Celtics. Non vinciamo di squadra ma possiamo vincere per il talento dei singoli”. Bene, forse…ma non la dichiarazione che ti aspetti dal leader della tua squadra. Quello che non è James, e palesemente non sarà mai Bosh. E allora? Arriverà una gara 6 per non dire 7 contro Boston o Orlando e – seguendo la teoria di Dwyane – la palla finirà in mano a uno tra Wade e LeBron, con la preghiera di farci qualcosa, con sta palla. Magari di vincere da solo una partita così importante e decisiva. Uhm, direi che non ci siamo proprio…
Born to run – Quando gli Heat corrono, e corrono davvero, le cose cambiano. Le gare cambiano e così, anche solo per un attimo, il destino della Lega. Sanno difendere, a volte, anche se non di squadra. Non è davvero l’impossibilità di farlo, ma semplicemente la voglia. E quando questa voglia c’è allora Miami sprinta in campo aperto, così veloce e potente da diventare inarrestabile. E’ così che i Knicks vanno sotto per quasi 40 minuti, sparacchiando da tre (6 su 29 fino all’ultimo quarto) e mostrando la peggior versione del “famoso” gioco stile D’Antoni, quello dei “7 seconds or less” eccetera eccetera. E’ palese, risaputo, scontato che gli Heat fermi a metà campo, con la palla in mano ad una delle proprie stelle, diventano un’altra squadra. Un team che può perdere con chiunque e che proiettandosi all’ipotetica serie di playoffs di cui sopra, quando correre con costanza sarà più difficile, non può non considerare l’opportunità di strutturare meglio e diversamente il proprio attacco. E invece per ora Spoelstra non aggiunge e non toglie nulla al playbook. Non sono certo che questo accada per sua volontà, non al 100%.
Gallo&Landry – Fai fatica a riconoscerli. Purtroppo ora è possibile farlo grazie alla ginocchiera di Danilo, che quando sparirà – ci auguriamo presto – tornerà a confonderci nelle inquadrature televisive meno ravvicinate. A volte però – anzi sempre più spesso – i tifosi dei Knicks possono permettersi di far confusione tra numero 6 e numero 8, “accontentandosi” del dolce suono della retina che accomuna le conclusioni a canestro dei due players. Sono loro a decidere la gara con Miami: 4 triple consecutive, 2 a testa, nell’ultimo e decisivo periodo, e il gioco è fatto. Sbaglia invece Mario Chalmers dall’angolo il tiro del potenziale pareggio, con Felton che dalla lunetta mette in cassaforte la W numero 24. Sempre proiettati ai playoffs: se sei Spoelstra non vorresti che lo scarico di LeBron, dopo che la sua penetrazione ha attirato per così dire le attenzioni del mondo intero, finisca nelle mani di Mike Miller, appositamente acquisito in estate? Meditate gente, meditate…
Ma non era finito? – Ah, la memoria. Brutta cosa, direbbe Beppe Grillo. Una punta di Alzheimer ci aiuterebbe a scordare i motivi che ancora portano l’umanità a terribili guerre. Ma restiamo al basket, che è già tanta roba per me. A Phoenix, rientrando dall’infortunio al ginocchio, Amar’e Stoudemire era – a detta di Flavio Tranquillo – un giocatore finito. Non salta più, non è più l’atleta che ha impressionato tutti nelle prime stagioni “in the League”. Mah…si poteva non essere d’accordo, io non lo ero. In fondo era sempre un parere personale, per quanto autorevole. Io avevo il mio: un giocatore miglioratissimo, con un jumper dal gomito mai visto prima, sul quale Amar’e ha lavorato a lungo durante la riabilitazione. Chapeau. E l’atletismo, parallelamente, non mi sembrava del tutto sparito. Di conseguenza: 27+8 anche nella notte newyorkese, con l’alternarsi davvero gustosa di conclusioni di potenza e di tiri dalla media. E il raggio di tiro si sta ampliando, sempre più, insieme all’elevata capacità di pescare l’uomo sul perimetro, primo comandamento scolpito nella pietra da Mike D’antoni sulla montagnetta di S.Siro, dove lo colse l’illuminazione nelle prime stagioni milanesi da head-coach. La mia impressione non era sbagliata – amen – e Stoudemire festeggerà a Febbraio la presenza nel quintetto dell’Est all’All-Star Game losangeleno.
Per un paio d’occhiali – L’NBA è davvero una lega unica al mondo. Così i suoi protagonisti e altrettanto chi li governa dall’Olympic Tower. Wade sfoggia degli occhiali protettivi. Come quelli di Amar’e? No. Questi sono “anti-emicrania”. Dwayne soffre purtroppo di questo disturbo, così ha pensato di proteggersi dalle luci delle arene NBA come faceva Alberto Tomba nell’infilare una porta dopo l’altra sulle nevi del Sestriere. Tutto qui? Ci mancherebbe! Sempre all’Olympic Tower studiano il caso e senza disturbare i RIS di Parma decidono che il Texas Hold’em è un’altra cosa: giocando a basket non ci si può permettere il vantaggio di non mostrare lo sguardo agli avversari. Tutto da rifare. Gli occhiali ci sono (e non crediate per puro caso, solo al Madison Square Garden, escludendo L.A., poteva arrivare il battesimo) ma meno scuri. L’NBA dà il suo benestare, mentre negli occhi dei produttori dell’oggetto in questione, in stile Zio Paperone, appare il simbolo dei dollari, questa volta ben visibile, occhiali o meno. Impossibile non citare il buon Buffa: is it a great country or what?
Andrea Pontremoli