E alla fine la sorpresa è arrivata. Tante emozioni, ma nessun vero imprevisto, finché… Venenum stat in cauda, ed è proprio nelle finali di Conference che una delle due teste di serie salta. La finalissima vedrà in campo le due squadre che hanno mostrato maggiore versatilità e capacità di adattamento finora: i campioni in carica, maestri della costruzione del gioco e del ribaltamento delle partite dopo l’intervallo lungo. E gli sfidanti, signori della propria metà campo e capaci di rivoltare la propria serie come un calzino.
Il superteam delle superstar che vince comodo senza la prima delle sue star. E la sfidante dal coach rookie che, invece, ci arriva in groppa all’unica, scatenata superstar a disposizione. Le coincidenze e le contraddizioni del gioco più bello del mondo…
Toronto, che arriva a giocarsi l’anello per la prima volta nella storia della franchigia, ha saputo indirizzare non una, ma ben due serie grazie ad una carambola di Leonard arrampicatasi sul primo ferro e poi scivolata in fondo alla retina (si, è successo anche in gara 6 con i Bucks, anche se non era il buzzer finale, ma comunque in un momento molto importante)! Strane coincidenze, agli occhi di chi ha seguito questa come tante altre post-season: sembrano i classici segni del Fato, come fosse stata la mano degli dei del basket, più che quella di Leonard, a definire quelle traiettorie. Ma tant’è: la fortuna aiuta gli audaci e i risultati premiano i campioni, e Leonard ha messo tutti a tacere, quest’anno, supplendo all’assenza di Lebron come forse nessun altro avrebbe potuto, e facendolo anche con tanto di menomazione fisica.
Poveri Bucks: sembravano padroni della serie, sul 2-0, artefici del più bel gioco della Lega, e invece si sono visti sfrecciare davanti, quasi impotenti, una rimonta storica, con il punto di svolta rappresentato dai supplementari di gara-3, dopo i quali non ci hanno capito più nulla, subendo il gioco avversario. Non avevano fatto i conti con quella che, al momento del dunque, si è rivelata una difesa pazzesca, inespugnabile, tanto da trascinare Antetokounmpo, nel breve volgere di 4 gare, dalle vette di papabile MVP, giù, giù fino a terra, nella polvere degli sconfitti e nel novero dei “normali”: 43,5% dal campo, 20,5 ppg e un complessivo -15 di plus/minus dopo l’illusorio 2-0 iniziale. Cifre da buon giocatore e poco più, non certo da condottiero di una squadra vincente.
Occhio a lui: se la legherà al dito e tornerà più forte di prima…
Ma in Canada avevano Leonard, The Weapon, un animale capace di ergersi finanche oltre l’Olimpo di certe divinità greche, bypassare i limiti oggettivi di una squadra fino a quel momento non proprio eccelsa sul piano del gioco offensivo e vincere, prima, una serie (quella contro i Sixers) non già da solo (questo mai, nel basket!), ma facendo la differenza, e poi una finale di Conference che, sì, ha visto splendere di luce propria anche altri protagonisti ma che, diciamocela tutta, senza di lui sarebbe morta lì come quella dell’Ovest. MVP dei playoff per distacco, Kawhi Leonard!
In tempi non sospetti ho ammesso pubblicamente che Klay Thompson e Kawhi Leonard sono i miei giocatori preferiti e, al temine di una delle postseason più piacevoli a mia memoria, me li ritrovo, uno di fronte all’altro, in finale. Dopo la quale saranno entrambi sul mercato. Ancora coincidenze: è proprio un anno emblematico…
Ma non è questo il punto: non credo che interessi a molti la mia percezione delle Finals.
Ciò che invece andrebbe sottolineato è che la difesa ha deciso la Eastern Conference. La difesa e lo spagnolo venuto dall’Ovest. Alla luce dei fatti, credo che la firma di Marc Gasol a febbraio sia stata la chiave di volta della stagione e delle ECF per le giubbe rosse: dirottarlo lontano dall’area, in attacco, ha perfezionato le spaziature offensive, proprio quelle su cui Milwaukee aveva costruito le proprie fortune fino a quel momento, fino all’apoteosi in gara-6, in cui è stato addirittura lungamente schierato da 4, a raccogliere gli scarichi nell’angolo. D’altro canto, la sua chiusura su GA34 al ferro e sui corridoi ha girato la serie anche in chiave difensiva (con il contributo di Siakam e Ibaka, si intende). Nurse (alla faccia del rookie!) ha avuto il fegato di sfidare Milwaukee sul suo terreno, quello delle spaziature, ed ha ucciso la sfida raddoppiando e cambiando difensivamente anche sull’ombra di Giannis. Ha, infine, rivitalizzato un Van Vleet fin lì poco più che osceno, fino a trasformarlo in arma decisiva, mortifera, sfruttando gli spazi lasciati sul perimetro da una difesa che si chiudeva sulle penetrazione, eseguendo un movimento, ripetuto più volte, portandosi prima in angolo per poi scivolare di due o tre passi verso il centro e ricevere lo scarico; suo un immaginifico 14/17 dall’arco nelle ultime tre gare che ha inferto una sciabolata letale nel costato dei Bucks. Alzi la mano chi ci avrebbe pensato fino a due giorni prima!
E i Warriors? Ormai sembra già passata una vita dalla loro ultima partita, reduci, come sono, da uno sweep nelle WCF… Loro son sempre lì, c’è poco da dire. E vogliate, adesso, concedermi un momento di banale e spicciola retorica ma, dopo tante sterili polemiche, giova sempre rimettere i puntini sulle i: l’ennesima finale conquistata è frutto di una programmazione e di un’idea di pallacanestro innovative e senza pari. Il loro essere una dinastia sta tutto qui. Hanno alzato i ritmi, enfatizzato l’importanza delle spaziature fino all’iperbole, abbassato i quintetti, creato ove altri non sapevano, o non vedevano. Hanno usato sapientemente l’arma letale delle triple, sì, forti di un formidabile arsenale, ma piuttosto facendone un grimaldello per le difese avversarie troppo chiuse ed arcigne. Pagando dividendi enormi e dominando il pianeta più di una potenza nucleare. E hanno fabbricato tutto questo in casa, senza costruire superteam se non, dopo aver già dimostrato di saper vincere, attraverso un discusso (ma, a mio parere, indiscutibilmente legittimo) compromesso raggiunto tra desiderio di vincere ancora e “contratti di solidarietà” (chiedo umilmente perdono per aver mutuato il linguaggio del giuslavorismo, foriero di ben più drammatici scenari).
Hanno il merito di aver stressato il concetto di “point forward”, laddove la palla è spesso (ma nemmeno troppo) in mano a Draymond Green, tanto nervoso e improduttivo in RS, quanto decisivo in questi PO. E si attende il rientro di Kevin Durant: incredibile l’irrisoria facilità con cui i campioni ancora in carica hanno saputo supplire alla sua assenza forzata, passando dal 4-2 un po’ stiracchiato contro i Clippers e dal momentaneo 3-2 senza sussulti contro i Rockets, al percorso netto di 5-0 da quando KD è in infermeria.
Dire che Golden State sia più squadra in assenza del #35 è legittimo; sostenere che giochi meglio, opinabile; sbandierare che sia più forte, abbastanza incompetente. Tre affermazioni, in ogni caso, fuori dagli stilemi di #insideout: noi siamo certi che il suo prossimo, auspicabile rientro rappresenti, invece, proprio il fattore che farà pendere l’ago dei pronostici ancora una volta (l’ultima?) verso il piatto di Kerr.
E i Blazers? Sono usciti dalla bella contro i Nuggets con le ossa rotte, letteralmente: costole incrinate per Lillard, si dice; spalla fuori posto per Kanter, sembra, peraltro a sua volta chiamato a sostituire Nurkic (il vero grande assente di questi playoff, altro che LeBron!). Hanno battagliato e dato spettacolo in ciascun primo tempo della serie contro i Warriors, hanno stretto i denti e giocato la partita della vita in gara-4, quando tutti li davano già per morti, hanno trovato risorse in panchina perfino inaspettate (la resurrezione di Meyers Leonard) … Poi, però, bisogna sempre affrontare i famigerati terzi quarti dei Warriors e lì, tra stanchezza, acciacchi, aggiustamenti in corsa di Kerr, con tanto di difesa inespugnabile (davvero la chiave, il fattore D, in questi playoff) e palla in mano a Green, e non c’è stato nulla da fare. Né, probabilmente, diversa sorte sarebbe toccata ad alcun altro. Poco male, ragazzi: avete tutto, ma proprio tutto, per riprovarci la prossima volta, magari un po’ più sani e contro, chissà, un altro avversario.
Adesso si apra il sipario sullo spettacolo magico ed ineguagliabile delle Finals! E occhio, perché i favoriti sono sempre gli stessi e gli sfidanti arrivano stanchi e acciaccatelli, ma ci piace ricordare un precedente (tutti gli scongiuri sono leciti!): l’ultima volta che Golden State ha affrontato un rookie coach armato di superstar, in finale, le cose sono andate maluccio…