Tra dubbi e contraddizioni, prosegue la marcia di avvicinamento di Popovich e della sua ciurma al mondiale in Cina. Ci eravamo lasciati con un roster di 14 elementi e con il dubbio sugli ultimi due tagli; le scelte, ancora una volta, non sono state su base tecnica: De’Aaron Fox ha deciso di tornare a casa per preparare al meglio la stagione con i suoi Kings; da ultimo, Kyle Kuzma ha riportato un infortunio alla caviglia e, giudicato inabile a giocare, ha dovuto dare forfait. Si è, così, arrivati a definire i 12 chiamati a difendere il titolo conquistato cinque anni fa semplicemente traendo a bordo i “sopravvissuti”, quasi per selezione naturale, rinunciando, obtorto collo, a due pedine non di secondo piano: Fox sarebbe stato il naturale backup di Kemba Walker; Kuzma era, da ultimo, l’unico 4 vero presente sulla nave (bagnarola?) capitanata dal Pop ed aveva lasciato intravedere quanto utile potesse essere nell’economia del gioco a stelle e strisce, tanto contro la Spagna, quanto nella prima amichevole disputata (e vinta) in Australia…
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Se il ruolo di selezionatore è stato, dunque e suo malgrado, tra i più agevoli per il coach di San Antonio, quello di head coach si presenta improbo, con una rosa a disposizione tra le meno equilibrate che la storia della nazionale statunitense ricordi da quando le porte della selezione sono state aperte agli atleti professionisti.
Fa da contraltare la prima buona notizia del pre-mondiale nordamericano: il recupero per tempo di Marcus Smart, subito nominato capitano insieme a Mitchell e (ovviamente) Walker e gettato nella mischia nella seconda amichevole contro i canguri, persa, tra l’altro, sul filo di lana (prima sconfitta in tredici anni di partite ufficiali!).
Non un buon viatico, in vista del trasferimento in Cina, benché Popovich abbia, ovviamente, cercato di minimizzare (“…Nessuno può vincere per sempre”) e avesse già messo le mani avanti nel post-partita della prima sfida (“…Questa Australia è una delle peggiori minacce”). Non parla mai a sproposito il Pop, le sue dichiarazioni non sono mai orientate allo scontato o alla diplomazia: sapeva cosa diceva. Nonostante la vittoria tutto sommato comoda, aveva, come sempre, visto lungo, il timoniere della zattera americana: imbottita di stelle NBA e guidata dal “suo” Patty Mills, la selezione oceanica ha impartito una dura lezione tecnico-tattica ai campioni e messo a nudo le loro lacune soprattutto difensive (come paventato nel precedente articolo), sul pick and roll, sulle rotazioni, in aiuto, sui mismatch, sulle uscite dai blocchi, nel pitturato.
Sulla colorita immagine con la quale il coach americano ha descritto quanto sia pericoloso Mills, sorvoliamo per decenza: resta, il Pop, uno dei pochi sportivi professionisti al mondo che meriti davvero di essere ascoltato quando rilascia un’intervista.
Se i sincronismi imperfetti (per usare un eufemismo) possono migliorare in corso d’opera con l’affiatamento, l’intensità delle partite che contano e la sagacia dello staff tecnico, a preoccupare di più è la restrizione delle soluzioni tattiche a disposizione di Popovich, soprattutto dopo aver perso Kuzma, di fatto l’unico stretch four puro a disposizione: per una squadra che, fin qui, aveva mostrato una propensione ad aprire il campo appannaggio dei tremendi drive dei portatori di palla o del catch and shoot dei tiratori, si tratta di un ruolo-chiave. C’è, ora, da capire come il coach intenda ovviare a questa carenza e un indizio, sia pure inflazionato dal modesto banco di prova, potrebbe essere arrivato proprio dall’ultima gara amichevole disputata prima di staccare il biglietto per Shangai (esordio il 1 settembre contro la Repubblica Ceca).
Meglio, molto meglio, infatti, la prova collettiva contro un Canada, se possibile, ancor più falcidiato da infortuni e rinunce. Si è visto qualcosa di più, in particolare, sotto canestro, dove il punto di forza di Team Usa, il pacchetto esterni, ha sfruttato a proprio vantaggio la superiore taglia fisica e il fenomenale atletismo per arrivare al ferro o giocarsela in post. Le perplessità permangono per quanto riguarda la difesa dell’area: le poche insidie sono arrivate ancora lì, con due buoni giocatori, ma non certo superstar, come Birch e Wiltjer, che hanno fatto un figurone.
Al di là dell’indiscussa leadership di Kemba e del ruolo di spalla designata per Mitchell, sembra crescere a vista d’occhio il ruolo dei Celtics Tatum e Brown, oggettivamente dei mismatch viventi in un torneo FIBA, così come quello del veterano Barnes (unica ala grande “naturale”) e di Turner, che bene si sta muovendo in qualità di centro (10+15 contro i canadesi).
Non si può certo dire, con nomi come questi, con due All Star come Walker e Middleton, giovani in rampa di lancio per divenire assoluti protagonisti in NBA, come i ragazzi sopra elencati, che il roster chiamato a difendere il titolo mondiale sia secondo a qualcuno. No: la quota di talento, benché di secondo o terzo piano rispetto ad un potenziale Dream Team formato dai “rinunciatari”, è altissima e profonda. Tuttavia, gli equilibri, anche a causa delle continue defezioni fatte registrare durante il camp, sembrano ancora lontani e, oggettivamente, qualche limite strutturale c’è.
Il girone E (Turchia, Repubblica Ceca e Giappone) servirà a Popovich per temprare lo spirito e forgiare la chimica di gruppo, per farsi trovare pronto quando il gioco si farà duro. Sarà sufficiente, per realizzare il “triplete”, infilando il terzo titolo mondiale consecutivo? L’impresa non è mai riuscita a nessuno e sarebbe paradossale se, a portarla a compimento, scrivendo la storia della pallacanestro, fosse proprio la nazionale USA forse non più “scarsa”, ma certo più screditata della sua meno che trentennale storia “pro”.
A Gregg Popovich, come al solito, il compito di lasciare tutti senza parole. Al campo, unico giudice insindacabile, la sentenza senza appello. Allacciate le cinture….