26 dicembre, Dallas si aggiudica il derby texano contro gli Spurs controllando, tutto sommato, il match ben più di quanto dica il risultato finale. Nel post-partita, evidentemente informato delle critiche incassate durante la gara dai telecronisti di TNT (Chris Webber, Shaq e Sir Charles, mica tre nomi qualsiasi!) per la scarsa aggressività di Kristaps Porzingis nei pressi del canestro, Rick Carlisle si lascia andare ad un’appassionata difesa del lettone e del suo sistema che, ben presto, si tramuta in un vero e proprio anatema contro il gioco in post in generale.
https://youtu.be/XOeG7NnZS4A
“Il post up non va più bene… Porzingis era abituato a giocarlo per via del triangolo a New York, ma ormai chi lo usa più il triangolo?… Il post up ha un valore troppo basso, non voglio che KP vada in post, perché perdiamo valore… I numeri dicono che quando spaziamo in 5 siamo il miglior attacco della storia… Jackson è stato un genio, ma è ora di voltare pagina… Noi non mandiamo nessuno in post… Quel tipo di attacco è estinto…”.
Carlisle è un personaggio, da sempre: eccentrico, duro, mai banale, ha attraversato indenne tanto lo squadrone di Wunderdirk quanto il rebuilding, di cui ora sta raccogliendo i clamorosi frutti: i Mavs del duo europeo Doncic-Porzingis sono, di fatto, la rivelazione della stagione, insieme agli Heat. Belli da vedere, estremamente efficienti, grossi, non velocissimi, ma capaci di far correre la palla esaltando anche i comprimari. Ball don’t lie e i numeri nemmeno: KP sta crescendo, tirando meglio, passando meglio e rappresenta, in effetti, un valore aggiunto sul perimetro.
Ma questo autorizza Carlisle a generalizzare e dichiarare il decesso del gioco in post? Fermiamoci un attimo a riflettere. Perché il post si usa molto meno? Qual è l’efficienza delle squadre che più lo usano?
Il post basso è una posizione privilegiata per vari motivi ma è meglio difeso, adesso: nel contesto di una pallacanestro molto più dinamica, varia, fatta di spaziature, rapida circolazione e percentuali realizzative che dipendono più dalla distanza dal proprio marcatore che dal canestro, far pervenire la palla al giocatore di turno in low post spalle a canestro determina inevitabilmente il fermare la palla o iniziare un palleggio per studiare la posizione dei compagni sul parquet, avvicinarsi al ferro usando il corpo o guadagnare una posizione fronte a canestro per avere un tiro a più alta probabilità di successo. Sono secondi preziosi, durante i quali la difesa ha il tempo di raddoppiare, prender posizione lontano dalla palla, chiudere la linea di fondo mentre il marcatore ti spinge verso il centro area. L’istinto mi indurrebbe a scrivere, usando la memoria come unica unità di misura, che una larga parte delle azioni in post si conclude con una palla persa.
Inoltre sì, essendo divenuto il pick & roll così centrale e lo spot up così efficace, il post non è più neppure lontanamente la prima opzione offensiva.
Chiaro che un giocatore di 220 cm che sappia attuare le tre minacce fronte a canestro è irrefrenabile, perché non offre punti di riferimento alle difese rispetto ad un 220 che la riceve spalle a canestro.
Ma è una ovvietà altrettanto pleonastica che un 220 vicino a canestro, se sa muoversi, è quasi immancabile per il 90% e oltre dei difensori!
Il post up, inoltre, non significa solo giocare il triangolo, ma anche punire i raddoppi facendo ripartire la circolazione o semplicemente con un dai e vai per la guardia, o assistere il taglio di un’ala dinamica a canestro o ribaltare sul lato debole. Significa giocarsi un mismatch favorevole o punire l’aiuto del lungo assistendo un backdoor. Quanto gioco costruivano i Warriors dei tempi d’oro con Durant e Green, dal post? Quanto post up ancora vediamo in campo, al di là di ciò che raccontano le fredde statistiche? Le quali spesso registrano meccanicamente solo le più classiche situazioni di low post, approssimando per difetto le fasi di gioco meno tradizionali. Voglio spiegarmi portando un esempio: nella sfida vinta dai Rockets contro i Nuggets la notte di capodanno, i texani hanno severamente punito i raddoppi sistematici su Harden anche grazie all’ottima prova di Westbrook, il quale ha sì, anche lui, giocato spesso in isolamento, ma in innumerevoli situazioni lo ha fatto prendendo palla
spalle a canestro in post, più precisamente in quello che una volta si chiamava post medio, battendo il diretto avversario con il classico giro e tiro alla Kobe o assistendo Capela, bravissimo a prendere posizione…in low post e a punire, così, gli aiuti sul numero 0. Dall’altra parte del campo c’era uno dei più fedeli e arguti interpreti del gioco in post, Jokic, il quale ha, però, assaggiato i pregi nascosti della difesa di Houston, che pure ci sono e che sono sovente vittima del luogocomunismo imperante. Ecco: in una partita così, tra due squadre alle quali il sito ufficiale della Lega assegna rispettivamente 2,4 e 8,0 possessi in post in media, mi sarei aspettato di vedere un giocatore spalle a canestro un numero irrilevante di volte, mentre ne ho contate una decina solo a metà del primo quarto! Oserei dire che il successo dei giochi in post è stato, invece, una delle chiavi del match.
Però, se vogliamo affrontare il discorso con uno sguardo d’insieme, dobbiamo necessariamente
rassegnarci all’approssimazione e dare uno sguardo ai numeri ufficiali. Sempre secondo nba.com, solo Philadelphia gioca oltre il 10% dei suoi possessi offensivi in situazione di post up, ma ci sono 10 squadre con un’efficienza realizzativa superiore al 50% e ben 14 che traducono ogni possesso in low post in oltre 0,90 punti. Tra le squadre che più usano questo gioco, manco a dirlo, prevalgono quelle più atte a trarne vantaggio in base ai giocatori a disposizione: oltre i Sixers, dunque, nessuna sorpresa vi siano Spurs, Lakers, Nuggets, Knicks, con i Clippers e i Bucks di rincalzo. Tra i giocatori, ovviamente primeggiano i lunghi, su tutti Marianovic, Embiid e Aldridge, con il solo Anthony a fare da “imbucato” tra i primi 10 (va detto che Melo, a Portland, gioca per lo più da 4). Le sorprese, però, arrivano quando, dalla frequenza, si passa ad analizzare la produttività: ai primi tre posti troviamo tutti esterni: Jaylen Brown, Luka Doncic (che te lo dico a fare?) e RJ Barrett! E i team? Anche qui, inattesi primati, perché, pur giocando il post di rado, Celtics e Hornets sono le realtà che più spesso convertono il “gioco estinto” in moneta sonante.
C’è una morale che possiamo trarre dal nostro ragionamento e da questi dati? A mio avviso più d’una: il gioco in post non è estinto, bensì ridimensionato e parecchio cambiato dai tempi di Tex Winter o di Phil Jackson. E i dati stanno lì a dimostrare che non si può generalizzare, definendolo improduttivo: può essere un perno utile per far ripartire la circolazione, o per assistere i tagli o per sfruttare i mismatch per costruire tiri ad alta percentuale. Insomma, riveduto e corretto è un’arma in più; per chi sa usarla, s’intende…
Non è un caso, a mio parere, che le migliori delle due Conference figurino tra le prime quanto a frequenza e/o produttività di gioco in post up: il basket moderno non è necessariamente solo pick and roll, five out, run and gun e spot up. Il gioco moderno è un basket totale in cui tutti i giocatori sanno fare tutto, dal creare gioco al fare canestro e le sue migliori interpreti non sono le squadre che più prediligono il tiro da tre punti, ma quelle che sanno creare varietà di soluzioni e occupare efficacemente ogni mattonella.
Poi ciascuno giochi come meglio crede e difenda liberamente le sue scelte, ci mancherebbe, specie se, come Carlisle, ha il conforto dei risultati. A patto, però, che questi non divengano una foglia di fico per i difetti dei singoli o un alibi dietro il quale parlarsi per non allenare determinati fondamentali: che siamo nel 1980 o nel 2030, il gioco consiste sempre nell’infilare una palla a spicchi arancione dentro un canestro e, per quante trasformazioni possa aver subito nel tempo, sarà sempre un non sense che un centro di due metri e venti non sappia far canestro dal post basso!