È sempre difficile cominciare un racconto dalla fine. Tuttavia noi di #stillawake siamo umili opinionisti sportivi, non romanzieri, e abbiamo il dovere di priorità per il tema più caldo. Siamo anche un po’ scanzonati, ci piace prendere lo sport per il verso giusto, quello romantico più che quello algebrico, nonché sufficientemente pratici da “uscire” appositamente con qualche giorno di ritardo, perché l’annuncio del nuovo head coach era nell’aria e non potevamo rimandare a ottobre la notizia più attesa: Steve Nash, la leggenda, l’MVP, il genio che ha cambiato il modo di pensare il basket, l’hall of famer, è il nuovo timoniere dei Brooklyn Nets!
E chi lo avrebbe mai detto? Mesi di rumors dei più disparati (Tyronn Lue il più ricorrente), tutti lì ad aspettare il nome con tanto di palmares, a spulciare gli annali per cercare un candidato che vantasse una mezza amicizia con il cugino di Irvig o una lontana parentela con la prozia di Durant…E invece, dopo aver vagheggiato Popovich (che avrebbe dovuto essere la prima scelta di chiunque ami la pallacanestro) speculando anche sulle sue operazioni immobiliari (non noi), ecco arrivare, dunque, la tanto agognata terza stella (cit. Dinwiddie) e ci perdoneranno Chiozza e Martin se scendono di qualche capoverso nel nostro articolo, ma un blasone del genere, quando fa il suo ingresso in scena in modo così inatteso, pretende i riflettori, e chi siamo noi per negarglieli?
È fuori discussione che, almeno sul piano della fama, Nash non sia secondo a nessuno, così come non lo è stato mai da giocatore. Nome, il suo, mai neppure immaginato da nessuno, eppure un solido legame tanto con KD (che ha allenato personalmente), quanto con Marks (ex compagno di squadra); almeno sul versante della solidità caratteriale e del link con società e giocatori, una soluzione ideale, che non inflaziona il ruolo delle star ma che riporta senz’altro in primo piano, di contro, quello del GM. Un colpo a sorpresa, sottotraccia, inimmaginabile, sensazionale. Dunque, un colpo a la Marks. Ci stupisce la scelta, non la mossa (chi ci segue sa che non abbiamo mai escluso un nome nuovo di zecca, né mai abbiamo creduto che il GM si lasciasse teleguidare da Irving e/o Durant).
Cionondimeno, è lo stesso Nash ad essersi offerto per il ruolo, è lui ad aver sentito le due star, dopo la nomina, riscuotendo entusiasmo da parte loro, è lui stesso a parlare, ad esempio, di un ritorno di Jamal Crawford. È Nash ad aver allenato in sessioni personalizzate Durant e Levert insieme, nell’estate 2016. È lui a riferire di aver svolto sessioni anche con Irving in passato e del reciproco rispetto che ne è nato…Nash è parte attiva del processo fin da maggio (cit. Puccio), benché Marks non neghi di aver cercato il nuovo HC in modo il più aperto possibile (non conosceremo mai l’esatta sequenza temporale degli eventi).
La prima conferenza stampa da capo allenatore, in onda proprio mentre chiudiamo questo numero, non ha aggiunto molto alla nostra analisi. Sorvolo sulle sciocchezze riguardanti il “privilegio bianco”: Tsai e Marks, entrambi non statunitensi (come del resto Nash), hanno a che fare con le innegabili discriminazioni razziali più o meno come il sottoscritto con l’uncinetto e affermare che un HOF del calibro di Nash non meriti una chance come coach non vale neppure lo sforzo di un contraddittorio da parte di chi, come me, segue la Lega da 34 anni e Nash lo ha ammirato (e “odiato”) come player. Il passaggio, forse, più significativo, tra i tanti convenevoli, è quello in cui Nash afferma di non aver sentito Durant durante il processo che lo ha portato al tavolo delle trattative: di fatto, se ancora ce ne fosse bisogno, l’ennesima legittimazione della leadership di Sean Marks.
Il quale, dal canto suo, senza mai dimenticarsi di citare le continue consultazioni con le star, parla in prima persona, sottolinea lo stretto legame personale con il nuovo coach, sostanzialmente rivendica la paternità della scelta. Si è mosso lungo il filo di un sottile equilibrio con i giocatori (né, realisticamente, avrebbe mai potuto essere diversamente), ma non si è fatto scavalcare: si è mosso da sovrano illuminato, badando alla soddisfazione dei suoi sudditi senza mai cedere loro responsabilità e scettro e portando a corte un maestro di cerimonie ideale, la cui voce sarà ascoltata e le cui orecchie sapranno ascoltare. Non sapremo mai, prima di vedere di nuovo la palla rotolare sul parquet, se sia la scelta tecnica più giusta. Quel che possiamo dire da subito è che si tratta di una scelta “politica” perfetta, di grido, ad effetto. Di quelle che ti fanno ancora inchinare di fronte al genio di un GM che in 4 anni ha costruito una contender dal nulla e che ora dimostra di saperla anche gestire. Manca il suggello dei risultati per ascendere al Gotha dei più grandi, ma qui ed ora non manca nulla per essere una delle figure più rispettate e capaci della Lega. E per fare di noi dei marksisti ortodossi, in attesa che la lenta rivoluzione di Brooklyn ci conduca verso il sol dell’avvenire.
Stop speculation, please! Ora cerchiamo di evitare, dopo aver tanto vanamente speculato sul nome del nuovo coach, di ripetere lo stesso errore sulle sue future scelte tecniche e di mercato o su forzati paragoni con Kidd o con Kerr: Nash non sarà mai solamente un allievo, un viandante che si accoda sulla strada tracciata da altri. Wait and see, con l’unica certezza di avere in panchina un profondo conoscitore, se non un trasformatore, del Gioco e una personalità che non si piega di fronte a nessuno. Che poi la paternità della sua scelta sia tutta di Marks o ci sia, invece, lo zampino di Irving e Durant, se il risultato dovesse essere vincente, francamente, me ne infischio (cit. Clark Gable).
Dove eravamo rimasti? Ci eravamo lasciati nello sconforto di un luglio tribolato come nessun altro, ma con la luce della speranza in coda allo scorso numero, quando ancora ci stropicciavamo gli occhi increduli per la vittoria contro i Bucks e i playoff ormai in ghiaccio nonostante la batosta rimediata per mano dei Celtics. Ma questi Nets, i Nets di Bubble City, sono in missione e sono pronti a rialzarsi dopo ogni caduta. Non solo: sono anche pronti a dominare avversari alla portata, come i Kings (career high di 8 assist per un ottimo Jarrett Allen), o a stupire ancora, appendendo alla cintura nientemeno che lo scalpo dei Clippers, con una prova magistrale di squadra, soprattutto dall’arco (batteria di fucilieri imprendibile, quella composta dal solito, impagabile, Joe Harris, insieme a Temple e al positivo Tyler Johnson dalla panchina) e con uno stellare Levert (career high anche per lui alla voce assist: ben 13!). Conquistata la matematica certezza del settimo posto, eguagliato il piazzamento della passata stagione con 7 uomini fuori dalla bolla (sette!), i bianconeri non si siedono, anzi si prendono la rivincita contro i Magic per poi mostrare cosa sia la “Nets culture” nell’ultima gara di RS, affrontando con il coltello tra i denti i Blazers di Dame Lillard obbligati a vincere per strappare il pass per il play-in tournament. Si spengono sul primo ferro, all’ultimo secondo, le speranze di Levert di cambiare il corso della storia (e quelle dei Suns di coronare la loro splendida rincorsa).
I playoff: un bagno di sangue e di umiltà. Un’impresa, quella realizzata da un manipolo di ragazzi raccolti intorno allo splendido asse Levert-Allen, al fenomeno Harris e al veterano Temple. Punto. Un capolavoro, quello compiuto da Jacque Vaughn plasmando il materiale, non certo di prima scelta, che aveva a disposizione dandogli giorno dopo giorno la forma e la consistenza di una squadra vera, lo spirito eroico e resiliente di Davy Crockett. Ma i playoff, si sa, sono un’altra storia: altra intensità, altre difese, altro livello, altro basket. E la Fort Alamo dalle mura impastate di intelligenza e ball sharing, di orgoglio e resilienza, nulla ha potuto di fronte alle orde canadesi del generale Nurse, fresco di nomina, meritatissima, a COY.
La differente qualità, tra i campioni in carica al completo e i settimi in classifica con ben otto pedine out, è parsa solare fin dalla palla a due di gara 1: difesa disegnata appositamente per limitare Levert (giustamente individuato come l’unico, vero pericolo pubblico) e attacco capace di far valere l’enorme divario fisico, atletico e qualitativo, specie nell’uso dei blocchi, poi magistralmente messi a frutto da un irrefrenabile Van Vleet, MVP della serie. I Raptors costruiscono un +33 praticamente senza sudare e smascherano l’inadeguatezza di Kurucs per i playoff, laddove andare fuori giri e pagare dazio in difesa non viene perdonato mai, nonché l’inesperienza di Vaughn in post-season.
Il coach, però, ha già dimostrato di avere in faretra la freccia dell’intelligenza e i suoi accorgimenti, nella ripresa, saranno tali da interrompere la narrazione di una storia già scritta e un po’ noiosa, da qui fino all’ultimo quarto di gara 2: quintetto piccolo col Luwawu-Cabarrot schierato da 4 tattico e difesa matchup, i cardini del terzo periodo di gara 1 e dei primi tre quarti di gara 2, i migliori, forse gli unici in cui i Nets hanno reso la vita difficile ai canadesi, costringendoli a cambiare filosofia in difesa e in attacco.
E poi? E poi Nurse ha capito il da farsi, la stanchezza ha costretto i Nets a capitolare dopo il losing effort di gara 2 e la sopraggiunta assenza di Joe Harris ha chiuso definitivamente i giochi: senza di lui, a Toronto è bastato silenziare il pick and roll bianconero per archiviare la pratica. Uno sweep che era nell’aria nelle condizioni date, ma sarebbe ingeneroso lasciare che oscurasse quanto di buono Vaughn e i suoi ragazzini hanno saputo cavare dall’esperienza nella bolla.
Bubble City: una parentesi tutta da leggere. Se c’è una squadra per la quale Disneyworld ha rappresentato una realtà a sé stante rispetto al resto della regular season, quella è Brooklyn: nuovo coach (Vaughn ne aveva dirette, e vinte, appena due prima del lockdown), ben sette (oltre a Beasley che non ha neppure fatto in tempo a firmare) uomini fuori combattimento per svariate motivazioni, due two-way contract estesi, cinque volti nuovi, il più illustre dei quali, un quarantenne, ha fatto a tempo a vedere il campo per sei minuti, prima di infortunarsi a sua volta, un manipolo di ragazzotti di belle speranze e poco più. Una squadra tutta da inventare. Nessuna delle altre ventuno concorrenti ha avuto una simile partenza ad handicap, nessuna più lontana dalla squadra costruita ad ottobre, né da quella fermata a marzo dalla pandemia. Difficile individuare la chiave di analisi, eppure qualche capitolo del romanzo di Orlando appare chiaro e fluido alla lettura.
ROB (rookie of the bubble) Timothe Luwawu-Cabarrot: merita un contratto garantito: è giovane, intelligente, sa tirare (ha sfiorato la magica tris 50-40-90), ha fiducia e un innato senso della posizione, sa adattarsi, spaziare, giocare di squadra. Un role player perfetto per la second unit, low cost- high reward!
MIBP (adesso arrivateci da soli) Jarrett Allen: mi autoaccuso e mi cospargo il capo di cenere per aver dato prematuramente per chiusa la crescita e l’esperienza a Brooklyn di questo ragazzone afro, che ha dimostrato di essere cresciuto n volte in difesa, in particolar modo nei tempi, negli scivolamenti e nei cambi. Personalmente, non mi interessa che sappia anche tirare triple.
MVBP Caris Levert: una pick and roll PG di assoluto prestigio (25+6,7+5), top scorer, inafferrabile in drive, ha aggiunto mid range jumper e post offense in modo del tutto affidabile. Peccato che il tiro da fuori vada e venga, ma la meccanica è migliorata parecchio e la fiducia non è mai scemata: ha appena 26 anni e tutto il talento necessario per completarsi.
Joe Harris: Sean Marks, dichiarando che la sua estensione è la priorità assoluta di questa off-season, ha semplicemente preso atto che Joe “buckets” è insostituibile. Personalmente, potrei accettare di cambiarlo con il solo Klay Thompson, a patto che sia al top. Solo due cifre (tutte quelle che riporto sono riferite ai seeding games): 54% da tre, 75 EFG%. Semplicemente, irreale!
La rivelazione: Chris Chiozza. Rapidità, letture, difesa. A dispetto della taglia fisica, un giocatore da NBA. Insieme a TLC, primeggia in defensive rating, PACE, +/- on the court, AST/TO. Personalmente, i movimenti che mi hanno più colpito sono stati proprio quelli difensivi, in particolare il suo fulmineo spin dietro i blocchi e i suoi cambi su attaccanti per lui giganteschi: pareva un veterano.
Vaughn: il garante nella continuità. Innanzitutto, la seconda, grande notizia di questo numero di #stillawake: Jacque Vaughn ha esteso come primo assistente di Steve Nash! Vaughn ha dimostrato tanto, dal 7 marzo in poi: ha fatto crescere tanti giocatori, in primis proprio Levert e Allen. Ha mostrato capacità di preparare la partita, versatilità nelle idee, umiltà nel cambiare (lo smallball non rientrava certo nella sua filosofia di gioco), qualità nel timing e negli aggiustamenti in corsa: tutto ciò che era mancato durante la gestione Atkinson. Ha un solido rapporto con tutti i ragazzi, comprese le star. Sembra il trait d’union ideale tra passato e futuro, il segno della continuità della cultura del lavoro e dello sviluppo, nonché una garanzia di supporto tecnico per sopperire all’inevitabile peccato d’inesperienza di coach Nash. All done, well done, Jacque: conferma (e il contratto più ricco tra tutti gli assistant della Lega) guadagnata sul campo!
E adesso? (I have a dream). Ora la palla passa di nuovo a Marks che, con Nash, darà corso ad una offseason cruciale, che ci svelerà molto delle idee del neo-coach canadese. Inutile imbiancare i sepolcri: Irving e Durant avranno un ruolo importante nelle scelte future. Né potrebbe essere diversamente: ve li immaginate Pelinka e Vogel fare campagna acquisti all’insaputa di LeBron James? Il fatto che Durant sia rientrante dopo aver saltato una stagione gli conferisce ancora più voce in capitolo, perché dalle scelte del giocatore sul ruolo da assumere e dalle sue condizioni fisico-atletiche dipenderà anche buona parte dell’impostazione strategica dei Nets 2021. E questo sarebbe stato valido qualunque fosse stato il nuovo head coach.
Mettendo insieme le dichiarazioni di Nash (lodi sulla profondità, sul talento e sulla versatilità del roster attuale), di Marks (a partire dalla voglia di confermare Harris) e la scuola-Warriors da cui Nash proviene e dove ha lavorato tanto con KD (soprattutto sui movimenti in post), non mi azzardo in previsioni sulla sua filosofia di gioco (trattandosi di un esordiente assoluto), ma mi sbilancio su ciò che piacerebbe al sottoscritto. Vediamo, poi, quanti consensi o critiche riuscirò a portare a casa.
I have a dream (cit. MLK molto, molto fashion di questi tempi): che, per una volta, l’approccio al mercato sia conservativo e che trovino conferma o estensione tutti i protagonisti della rinascita bianconera e le giovani rivelazioni della bolla. Sì, ovviamente Levert, ma anche Allen, anche Temple e TLC, e poi Chiozza, Tyler Johmson e, soprattutto, Harris. Sarebbe, me ne rendo conto, inusuale e costoso, ma decisamente intelligente: c’è un nucleo solido, affiatato, profondo, versatile, all’altezza, pieno di tiratori in grado di muoversi on & off the ball, ragazzi dal rendimento ampiamente eccedente i costi prevedibili. C’è un core affiatatissimo formato da Levert, Allen (ancora sotto contratto per un anno) e Harris, che potrebbe essere convinto a restare con un contratto tri o quadriennale a cifre team friendly, se il progetto lo convincesse. C’è una proprietà che ha ampiamente sbandierato di gradire la luxury, ove il gioco valga la candela. E c’è una finestra di un paio d’anni in cui provare l’assalto al titolo: vale la pena, con un duo di star di questo livello, puntare sulla profondità e sull’usato sicuro, per affiancarlo al primo tentativo. I ragazzi lo meritano, l’ambiente lo desidera, lo staff tecnico sembra ben disposto e sono fermamente convinto che Durant, in campo, sia in grado di far salire di livello anche i compagni, creando loro spazi e condizioni per andare in ritmo.
La mia preferenza è che Durant sia designato a giocare da 4: atipico, tattico, point forward finché volete, ma da ala grande. Il ragazzo è semplicemente immarcabile per i pari ruolo, tira in testa a quasi tutti e il suo modo di muovere i piedi, girarsi, passare e tirare dal post basso è poesia in movimento. Ciò porterebbe, a mio parere, alcuni vantaggi anche fisici per l’atleta convalescente: gli permetterebbe di fermare il pallone e attuare le tre minacce senza forzare i ritmi; di lavorare caricando prevalentemente il suo piede preferito sia come perno che come piede di slancio nel jumper, il sinistro, evitando di spostare la spinta sul destro, reduce dall’infortunio. Tatticamente, immagino una filosofia Warriors-oriented con Irving e Harris nelle vesti degli splash brothers e Levert dividere i suoi minuti tra high post a la Green (caratteristiche fisiche drammaticamente differenti, ma talento, ball handling e passing skills largamente superiori) e leader della second unit, con Allen impegnato in quel fantastico gioco di blocchi, insieme ai piccoli, tali da mettere in condizione le guardie di sparare o tagliare in libertà, grazie alla capacità di creare gioco di KD: a Oakland non ricordo un centro col talento di Allen…
Ne nascerebbe uno starting five decisamente leggero ma veloce e creativo: esattamente ciò che Nash ci ha regalato da giocatore!
Unico boccone amaro, tanto difficile da mandare giù, l’evidenza che Dinwiddie, l’uomo dei miracoli degli ultimi tre anni, sia evidentemente l’uomo-mercato (con Prince e qualche scelta), qualora Nash decidesse di voler rimpinguare un reparto-ali obiettivamente un po’ depleto (ultima notizia di questo numero: Chandler ha appena firmato per giocare in CBA!). I tifosi saranno disposti a bere l’amarissimo calice solo se, in cambio, il premio fosse quello agognato da sempre…
Marco Calvarese
edito by Frank Bertoni