La notizia è di quelle che lasciano a bocca aperta, ed un retrogusto amaro tutt’altro che piacevole: il 9 dicembre Brandon Roy, guardia dei Portland Trail Blazers, ha annunciato il ritiro dal basket giocato, in seguito al perdurare di problemi alle ginocchia che hanno assunto col tempo un livello di cronicità che non lasciava speranze di recupero. Sono convinto che di “coccodrilli” dedicati a giocatori NBA ce ne siano già un bel po’ archiviati nelle redazioni sportive del globo: Grant Hill, Jason Kidd, Derek Fisher, avranno già il loro bel file pronto da mandare in stampa o al massimo da editare con le ultime info sul caso specifico.
Però credo che la sorpresa che ha colpito me al momento dell’apertura dei vari siti d’informazione sportiva da cui ho appreso la notizia del ritiro, sia la stessa che ha fronteggiato anche gli insider. Era da tempo che le sue condizioni fisiche erano precarie, e questo si sapeva, ma non credevo si potesse arrivare ad un epilogo tanto drammatico e in così poco tempo, soprattutto.
E’ stato come un fulmine a ciel sereno: lascia le scene, dopo solamente cinque stagioni, una delle stelle NBA più amate trasversalmente dagli appassionati. Un vincente ed un lottatore come se ne trovano pochi oggigiorno, dotato di un’umiltà ed un talento unici.
Sin dagli esordi tra i pro è stato subito chiaro di che pasta fosse fatto il prodotto di University of Washington. Selezionato nel 2006 con la sesta scelta dai Minnesota Timberwolves e subito tradato verso il pacifico in cambio della settima scelta dello stesso draft Randy Foye, Roy si aggiudica il titolo di “Rookie of the Year” per distacco sui diretti concorrenti: 126 voti su 127. Ma c’è qualcos’altro che salta subito agli occhi sin dagli albori della sua carriera: la fragilità delle sue ginocchia, che già nell’anno da matricola gli fanno perdere 25 partite, fatto che non gli impedisce di vincere ugualmente il premio.
Le seguenti tre stagioni sono, semplicemente, una cavalcata verso l’empireo delle star NBA. Le cifre, insieme alla considerazione degli addetti ai lavori e dei fan crescono esponenzialmente. L’inserimento nel All-NBA Second Team 2009 e All-NBA Third Team 2010; le tre convocazioni filate all’All Star Game (2008-2009-2010): solamente questo elenco di riconoscimenti potrebbe bastare per esemplificare il livello e la qualità di gioco raggiunta da Roy. Perché qui non stiamo parlando del solito “essere volante” che si conquista la partita delle stelle grazie al continuo inserimento all’interno degli highlights dei programmi televisivi sportivi. Ovviamente non siamo nella categoria fisica degli Hornacek vari, ma quello che più emozionava del suo gioco era la sua continua lucidità, il controllo che esercitava sulle partite, il talento cristallino che lo facevano apprezzare sia dai puristi del gesto tecnico che dai devoti dello spettacolo puro, la leadership che fin da subito aveva conquistato all’interno del proprio spogliatoio. Insomma, il giocatore totale: capace di chiudere per due anni di fila con abbondantemente più di 20 ppg, 4 apg, 4 rpg. Il tutto condito da percentuali e difesa. Cosa chiedere di più? Ecco, magari un paio di ginocchia meno fragili. Le stesse che fra la fine della stagione 2009-2010 e tutta la seguente lo hanno tormentato, fino a compromettere definitivamente il livello del suo gioco e la sua capacità di influire sulle partite come in passato.
Questi problemi lo hanno spinto ha prendere la sofferta, ma definitiva, decisione di ritirarsi poco prima dell’inizio della stagione, già accorciata dal lockout estivo. Il tutto senza che qualche critica alla gestione di tutta quanta la situazione fosse rivolta alla dirigenza e alla proprietà dei Blazers, che subito dopo il suo annuncio hanno deciso di esercitare la amnesty clause sul suo contratto.
Il basket perde, con l’addio di B-Roy, uno dei pochi esempi rimasti di giocatori totali, come, purtroppo, non se ne trovano più. Il prototipo del compagno di squadra che vorresti avere al tuo fianco, o del giocatore che non potresti fare a meno di adorare se giocasse nella tua squadra.
Chi vi scrive non è un sentimentale e non sopporta gli articoli standardizzati, volti solamente a strappare la lacrimuccia d’ordinanza da sfoggiare in ossequio al politicaly correct imperante. Le parole che state leggendo sono veramente sentite e scaturiscono da un’urgenza: B-Roy, il più europeo tra gli americani, mancherà veramente al gioco più bello del mondo.