La trade deadline è passata, senza che nulla di veramente significativo sia accaduto: Reddick si sposta da Orlando a Milwuakee, ma ci permettiamo di dubitare che questo avrà significative ripercussioni sull’assegnazione del titolo del 2013. Ed è il nome più grosso che si è mosso nel mercato di riparazione. Per il resto sono principalmente piccole trade per assicurarsi di non sforare il temutissimo cap e tirarsi addosso la luxury tax, 7 anni di sfiga e le piaghe d’Egitto.
Stupiscono soprattutto i movimenti non avvenuti: eravamo certi che Toronto si sarebbe separata da Bargnani, che Josh Smith avrebbe portate altrove le sue lamentele, che Utah avrebbe spedito uno o entrambi i suoi big men, e che Charlotte avrebbe fatto una qualunque cosa pur di smettere di essere… Charlotte.
E invece niente. Tutti a casa, o per mancanza di estimatori (Bargnani, Gordon, …) o perchè le squadre non vogliono scambiare per un giocatore in scadenza (a meno che non sia per liberare il proprio cap); Houston ad esempio, pur non nascondendo l’interesse per Smith, ha preferito aspettare quest’estate per provare a prenderlo contestualmente alla firma, e non rischiare di dare via qualcosa oggi per un giocatore che fra 3 mesi potrebbe decidere di andarsene.
E poi ci sono i due scambi più clamorosi tra quelli annunciati e che non hanno avuto luogo.
Capitano e Bigliettone ancora in verde per almeno 4 mesi
Come scritto su questa rubrica, Ainge si trovava davanti alla forte tentazione di cedere uno dei suoi due veterani quando, dato l’infortunio a Rondo, erano svanite tutte le possibilità di fare strada nei playoffs in questa che probabilmente era l’ultima stagione veramente buona per questo gruppo. Alla fine non ha fatto nulla (salvo scambiare l’infortunato Barbosa con Jordan Crawford), un po’ per non attirarsi le ire dei tifosi, un po’ perchè i suoi giocatori gli hanno reso il compito di una trade oltremodo difficile, mettendo in piedi una delle più commuoventi performance di squadra degli ultimi anni. Arrivati a quel drammatico 25 gennaio con un balbettante record dalle parti del 50%, da allora i C’s hanno vinto 10 delle successive 14, con una striscia di sette vinte consecutive, una sorprendente vittoria contro gli imbattibili Heat, un’altra epica contro Denver in 3 OT, e un massacro inflitto ai derelitti Lakers, che magari non sarà significativo quest’anno, ma fa sempre morale. L’assenza di Rondo ha responsabilizzato, ma anche dato più la palla in mano e maggior spazio d’azione ai compagni, in particolare le 3 guardie, Terry, Bradley e Lee, rinati da quando il numero 9 si è rotto. Attacco di squadra, condivisione delle responsabilità, difesa asfisiante e soprattutto un Paul Pierce tirato a lucido come non si vedeva da anni. Canestri pesanti, con tutta la difesa addosso, capacità di segnare quando conta, ma anche di costruire per i compagni, onestamente al capitano non si poteva chiedere di più. Quando giocano sui nervi e sull’orgoglio questi Celtics sono ancora una squadra con cui fare i conti. Peccato che tutto questo sia successo un po’ troppo presto: puoi giocare sull’onda emozionale del “noi contro il mondo e contro la sorte” per due settimane, forse per un mese, di certo non da qui a maggio. Al momento, con Phila quasi autoesclusa dalla corsa playoffs, stanca di Collins e in perenne attesa di Bynum, il più grande cestista della storia del bowling, con Milwuakee mediamente 2-3 gare indietro e atlanta/chicago 2-3 gare avanti, il sogno postseason sembra a portata di mano. Il passaggio del primo turno è invece strettamente legato alla griglia: contro Miami non c’è nessuna possibilità, contro NY è molto difficile (dando per scontato che i Knicks riescano a ritornare quelli di inizio stagione, e non la copia penosa di questo periodo). Con tutte le altre invece credo che Boston possa almeno giocarsela, facendo leva su esperienza, cattiveria e voglia: certo, non avrà il vantaggio del campo, ma con questo Pierce sembra un problema superabile. Il secondo turno invece sarebbe proibitivo: sia perchè è difficile che l’avversario non sia Miami o NY, sia perchè a quel punto la spia della riserva sarebbe accesa fissa, e non si potrebbe chiedergli di più. Cosa farà Ainge nell’estate non è dato sapere, ma per intanto godiamoci ancora qualche mese di questo purissimo Boston Pride: forse non è nuovo, e nemmeno spettacolare, ma a me piace sempre.
Orfani del Buss
L’altra squadra attesa a qualche manovra erano i Lakers. Probabilmente l’infortunio a Gasol l’ha reso virtualmente inscambiabile e, anche se non credo che a LA abbiano mai pensato di poter scambiare Howard, l’assenza di qualsiasi altro lungo disponibile a roster per questa stagione ha allontanato ogni possibile pensiero. E così, eliminato il principale problema dei gialloviola, ossia l’inconciliabilità tecnica di Gasol e Howard, si è potuto ricominciare a lavorare. Howard è fuori forma, e questo per un giocatore la cui efficacia si basa all’80% sui mezzi atletici … diciamo “generosi”, è un problema. Poi c’è la limitatezza del roster: D’antoni ha ridotto la rotazione a 8 uomini (dalla panca entrano solo Blake, Meeks e Jamison), un po’ perchè a lui storicamente piace così, un po’ anche perchè in panchina non è che ci fosse molto altro materiale da NBA. Lo stesso Clark, rivelazione dell’anno in casa Lakers, è tale senz’altro per i suoi meriti, ma molto ha fatto anche la clamorosa mancanza di alternative.
Su tutto poi è calata la notizia della morte di Jerry Buss, storico Owner dei Lakers, uno dei fondatori dell’NBA stessa, uno il cui lavoro era fare il proprietario dei Lakers, non aveva altri interessi. A partire dall’estate si aprirà la lotta intestina fra i due figli, l’ex playmate e attuale compagna di Phil Jackson, Jinnie, e il figlio non così vispo Jimmy, quello che fra Kobe e Bynum tifava Bynum, per capirci.
La notizia ha provocato del dolore autentico fra le fila gialloviola, ma ha anche dato la scusa per una reazione di orgoglio che, unita alla “soluzione” del dualismo dei centri descritta prima, ha portato ad un record di 10 vinte e 5 perse nelle ultime 15. Gran parte del merito va a Kobe che, se l’MVP non fosse già assegnato a LeBron, e se non ci fosse Durant che in qualsiasi altro anno lo sarebbe stato lui, potrebbe tranquillamente ambire al premio. Più passaggi, più leadership, il tentativo di coinvolgere Howard cercandolo con insistenza sotto canestro, la difesa, e poi tutto quel circo di tiri impossibili che non dovrebbero essere consentiti a un essere umano. Il loro record oggi recita 28-30, e li colloca come prima squadra esclusa dai PO, 3 partite dietro Houston e con nello specchietto Portland a 1 gara e Dallas a 2.
Rispetto a 1 mese fa, quando cominciavo a prospettare come possibile l’ipotesi di playoffs senza i Lakers, la loro situazione è migliorata, grazie soprattutto al calo di Portland, che comincia sulla distanza a pagare l’assenza di una panchina degna. La corsa dei Lakers oggi è necessariamente su Rockets e Jazz, difficile che una delle altre 6 squadre possa scivolare fuori dal tabellone (Golden State è in caduta libera, ma le 6 partite di vantaggio sembrano un cuscinetto sufficiente). La brutta notizia è che Utah, data per pronta alla autoeliminazione dalla corsa a seguito della cessione dei suoi lunghi, in realtà è rimasta a pieni ranghi, Williams è in ritorno, e Jefferson e Milsapp sono nel contract year, e si giocheranno nei prossimi 2 mesi il loro contratto più importante della vita. Niente tanking quindi, e speranze dei Lakers che si assottigliano. Se nell’ultima partita di RS i Lakers avessero la possibilità di giocarsi la postseason, avrei massima fiducia nel fatto che Kobe gliela vincerebbe. Dovendo invece realisticamente vincere almeno 14-15 delle prossime 24, in accoppiata col fatto che Houston o Utah dovrebbero perderne più della metà, le speranze mi sembrano molto minori.
Vae Victis