C’è sempre il rischio della retorica che si presenta – inevitabilmente – alla porta di chi prova a ricordare con obiettività le gesta di un grande personaggio scomparso. E’ il caso di Charles “Chuck” Daly. Dopo una lunga malattia il Coach due volte campione NBA è scomparso lo scorso 9 Maggio, proprio lo stesso giorno del suo ingresso nella Hall of Fame, giusto 15 anni prima.
Daly è stato – con o senza retorica, chissenefrega – il prototipo dell’allenatore NBA. E’ infatti nella Lega che ha passato le sue stagioni migliori, suggellando in pratica la carriera (non ostante gli ottimi record sia con New Jersey che con Orlando stabiliti nelle fermate successive) con la ciliegina sulla torta della medaglia d’oro a Barcellona 92, sulla panca del vero e unico Dream Team.
Coach Daly ha impersonificato nella sua esaltante esperienza con i Detroit Pistons l’allenatore capace di mettere insieme una squadra con – poche – stelle e tanti mestieranti, non ponendosi mai in prima persona sotto i riflettori, ma al tempo stesso avendo la capacità di farsi sentire, in spogliatoio come con la stampa e le tv. In tutto questo ha sicuramente influito la sua esperienza a livello di college, che a partire dai primi anni ’60 l’ha visto sulle panchine prestigiose di atenei come Duke (vice allenatore), Boston College e Penn, nel suo amato stato natale, guarda caso sempre e solo con bilanci positivi tra vittorie e sconfitte.
Il passaggio all’NBA avviene nel 1978, iniziando sempre come assistente per i Philadelphia 76ers. E’ al suo primo incarico da head-coach che Daly non ottiene per la prima e unica volta in carriera un record positivo. Ciò avviene nella stagione 1981-82 a Cleveland, proprio alla vigilia della lunga permanenza con i colori rossoblu dei Pistons.
Detroit sotto la guida di Daly diventa negli anni una seria contender per Boston e Philadelphia, dominatrici in quegli anni della Eastern Conference e dell’intera Lega insieme ai Lakers. Anche grazie a una serie di scambi azzeccati e a ottime scelte nel draft, l’entourage dei Pistons mette nelle mani del Coach un gruppo di lottatori al quale Daly sa dare il suo marchio di fabbrica: la difesa! Capita nella storia del gioco che alcune squadre, per quanto meritevoli, arrivino al successo in periodi dove la concorrenza non è granchè. Nel caso di Detroit avviene l’opposto. Oltre ai già citati Celtics, 76ers e Lakers, sta nascendo in quegli anni la stella di Michael Jordan e i suoi Bulls incrociano spesso e (mal)volentieri la strada di Detroit. Il Dome di Pontiac, Michigan, diventa un fortino inespugnabile e la reputazione dei Bad Boys cresce a dismisura. Solo un errore di Isiah Thomas su una famosa rimessa al Garden di Boston intercettata da Bird nega un primo approdo alle Finals ai ragazzi della Motown.
Ma nel 1988 i Pistons riescono finalmente a conquistare il titolo della Eastern, perdendo poi in finale contro i Lakers, nell’ultimo titolo della straordinaria formazione gialloviola del periodo Riley, Magic e Kareem. La rivincita è solo rimandata di un anno, e finalmente nel 1989 Detroit conquista il suo primo anello. La squadra è guidata dal folletto Isiah Thomas in cabina di regia, dal saggio Joe Dumars e da giocatori sottovalutati come Laimbeer, Edwards, Vinnie Johnson, Dennis Rodman. Detroit impazzisce per i suoi campioni e Daly entra finalmente, anche lui da “underdog” nella stretta cerchia degli allenatori campioni. Grazie anche all’acquisizione di Mark Aguirre, un’ala formidabile in post-basso che porta ulteriori punti togliendo pressione a Thomas e Dumars, ma soprattutto all’arcigna difesa, spesso sporca, sempre aggressiva anche oltre i limiti, ma tatticamente ineccepibile, i Pistons bissano l’anno successivo, battendo in finale Portland per un back-to-back che entra subito nella storia.
Chuck Daly allenerà ancora 2 stagioni sul pino di Detroit, senza riuscire a riconquistare l’anello. Ma è proprio al termine della stagione 1992 che Daly ottiene il riconoscimento più grande di tutta la sua carriera. Viene chiamato dalla federazione americana ad allenare la prima formazione di pro che si presenterà ai Giochi Olimpici di Barcellona, spinti dalla voglia di riscatto dopo la disfatta di Seul di 4 anni prima. Il roster è leggendario: si va da Magic Johnson a Larry Bird, da Jordan&Pippen a Stockton e Malone, e così via. Anche qui Daly sa interpretare al meglio il ruolo che gli viene assegnato, lasciando alle sue stelle il palcoscenico, anche quando in fase di selezione non viene chiamato il “suo” Isiah Thomas, si dice su esplicita richiesta di Sua Maestà Jordan. Il cammino è immacolato, con quell’aurea di sacralità che circonda la spedizione americana fin dal ritiro dorato di Monte Carlo, e si conclude inevitabilmente con una medaglia d’oro al collo.
Tornato in patria Daly si accasa ai New Jersey Nets intenti a ripartire con l’ennesima ricostruzione. Sono 2 stagioni vincenti quelle sotto la guida di Chuck ma che si concludono entrambe con l’eliminazione al primo turno di playoffs. Daly cambia ancora e il nuovo progetto si chiama Orlando Magic. Ormai Daly è un veteranissimo delle panchine NBA e a 67 anni è considerato uno dei migliori nel prendere in mano una giovane squadra (ricordate l’esperienza universitaria?). La prima annata si conclude col 50% di vittorie, mentre la seconda, la short-season del 98-99, termina col record di 33-17 e un’eliminazione al primo turno della post-season. Daly si ritira. Rimane nel giro come consulente ma ormai la sua esperienza di coach è finita. Nel frattempo il 9 Maggio 1994 era stato introdotto nella Hall of Fame, l’arca della gloria di Springfield dove la tenacia, la competenza, l’umanità e la signorilità di questo grande allenatore verranno ricordate per sempre.