Il playmaker. Il ruolo più discusso, a volte più decisivo e a mio avviso il più entusiasmante del panorama cestistico a trecentosessanta gradi. Come recita anche una rubrica di questo stesso sito No More True Point Guards ovvero: non esistono più i veri playmaker, gli interpreti puri del ruolo, quelli che, una volta passata la linea di metà campo, pensano prima a passare e solo secondariamente a realizzare punti.
Nel passato abbiamo avuto ottimi attori per questa parte, basti pensare a Jason Kidd, uno dei migliori passatori del basket moderno, fino ad arrivare ai più vicini Chris Paul o Tony Parker; tutti giocatori in grado di esaltare le folle con la loro creatività nel distribuire la sfera, ma allo stesso tempo capaci di prendersi le rispettive squadre sulle spalle e di adempiere a responsabilità offensive segnando anche un discreto quantitativo di punti (CP3 non ha mai segnato meno di 16 punti a partita, il canadese è da dieci anni che non scende sotto i 15).
Negli ultimi anni però si è andati controtendenza, e infatti pian piano il play classico è andato sparendo per far spazio al nuovo ruolo della combo-guard, la classica via di mezzo tra la point guard e la shooting guard, fatto dettato spesso da esigenze di centimetri, dato che molte volte questi ragazzi sono troppo bassi per fare la guardia classica in NBA ma non hanno neanche lattitudine da playmaker puro. Da loro ci possiamo aspettare ovviamente ottime doti realizzative, di penetrazione e molto spesso anche di tiro da fuori, ma di certo non grandi letture delle situazioni, o particolare predisposizione al passaggio. Vogliamo fare dei nomi? Non è difficile, perché nel panorama cestistico di oggi cè solo limbarazzo della scelta: pensiamo soltanto a gente come Monta Ellis (quasi sempre sulla soglia del ventello di media, ma di fatto schierato in punta da coach Nelson), oppure a Stephon Marbury, per andare un po indietro nel tempo, il quale, fatta salva lultima comparsata a Boston, ha sempre preferito creare per sé più che per i compagni (quasi sempre i suoi punti erano il doppio rispetto agli assist). Ecco, probabilmente Starbury rappresenta lideale di combo.guard perfetta: un giocatore che segna tantissimo, ma che riesce anche a coinvolgere il giusto i compagni senza fare proprio tutto da solo, e probabilmente è quello che nella storia pur breve del ruolo è andato più vicino a coronare il sogno di vincere un anello, nei suoi giorni a Minnesota, quando formava un asse play (ops, combo-guard)-pivot pressoché inarrestabile.
Buttando un occhio sul futuro gli orizzonti sono forzatamente più in questa direzione rispetto a un nostalgico ritorno alle origini. Giocatori come Brandon Jennings, Tyreke Evans, Stephen Curry, Jerryd Bayless o, per proiettarci già verso il prossimo draft, John Wall sono tutti playmaker formalmente, ma hanno doti atletiche e tecniche spesso proprie della guardia. Ciò che ho potuto personalmente notare è che comunque esiste una sorta di buona volontà della maggior parte di questi ragazzi di migliorarsi anche in regia per avere una copertura più completa del ruolo che vanno ad interpretare e i progressi sono sotto gli occhi di tutti: Evans per esempio è già padrone dellattacco dei Kings, che sembra cucito su misura per lui, mentre al college sostanzialmente pensava solo a buttarla dentro: sono piccoli passi, che possono avvenire addirittura prima dellapprodo al mondo dei pro, ed è quello che sta cercando di fare il dominatore incontrastato del college basketball di questanno: John Wall a Kentucky. Dopo anni di High School (la Word of God Christian Academy, nel North Carolina) in cui era un sublime realizzatore, ma poco propenso a distribuire, ha scelto il suo mentore nello stesso coach che ha saputo valorizzare Evans: John Calipari, sotto la cui guida il giovane Wall ha capito che nel basket odierno, ma soprattutto in quello del futuro non basterà più essere specialista in una sola delle fasi del gioco, ma si andrà sempre più in modo sistematico verso un tipo di gioco All Around, che copra tutti i fondamentali della palla a spicchi. Sembra che la crescita stia riuscendo piuttosto bene, visto che John, oltre a produrre 16.9 punti a partita smazza anche 6.8 assist con una sicurezza e una proprietà che al college si vedono solo nei fenomeni veri.
Spostandoci dagli States e andando in Europa rileviamo la tendenza della maggior parte delle squadre a puntare proprio sulle combo guards, probabilmente perché i pochi play puri tendono a preservarli e a farli rimanere in patria, ma sta di fatto che nel Vecchio Continente arriva soprattutto questo prototipo di giocatore: gran realizzatore, poco tiratore, passatore occasionale e solitamente discreto atleta. Ne abbiamo diversi casi, sia nel presente sia nel passato, in Italia e allestero. Pensando allanno scorso torna alla mente il buon Sundiata Gaines di Cantù (che ora si è guadagnato un contratto con i Jazz), oppure il convincente Paul Marigney, diviso tra Reggio Emilia e Pavia, mentre la più eclatante delusione recente è data dalloggetto misterioso Will Conroy, ammirato a Bologna sponda Virtus prima e a Milano in seguito, e che ora si è guadagnato un contratto di dieci giorni con Houston dopo delle convincenti apparizioni in D-League (13.9 di media conditi da 8.4 assist), da sempre fucina di talenti per gli scout europei.
Insomma, sarà interessante osservare ciò che succederà al ruolo del playmaker nei prossimi anni, ma siamo certi che non smetterà mai di regalare emozioni e probabilmente titoli di qualsivoglia genere in giro per il mondo.
[b]Luca Ngoi[/b]