Che i paragoni su tutto e tutti si sprechino, nello sport, è normale. Lo si fa con il nuovo Jordan, il nuovo Maradona, il nuovo questo, il nuovo quello. Lo si fa con le squadre (l’ho fatto io presentando la serie finale e definendo gli Spurs i nuovi Celtics), ora siamo arrivati a paragonare le dinastie, o presunte tali. C’è chi mette le sue regole (proprio sue eh?) tipo che senza back-to-back non se ne fa niente, o chi elabora classifiche mettendo avanti e spostando indietro. Semplicemente potremmo dire: ogni dinastia “è bella a mamma sua”, o no?
4 titoli in 9 anni, 3 negli ultimi 5, pochi episodi a far sì che questi anelli non siano 5 o addirittura 6. 10 anni sempre ai vertici, e per vertici si intendono quelli dell’intero sport professionistico americano, non solo dell’NBA. Che nessuno provi a farmi ridere (qualcuno/a c’è già riuscito) non c’è nessun altro termine per definire i San Antonio Spurs contemporanei se non, appunto, DINASTIA! Per quel che conti l’avere il totale accordo di fans e scribacchini del globo a tal proposito, eventuali dissensi non toglieranno il sonno al sottoscritto, figuriamoci ai pluri-campioni in nero e argento…
Poeticamente il tiro di LBJ che muore sul ferro sul finire di gara 3 era stato definito su queste pagine con un “flash”, e mi trovava pienamente d’accordo: l’immagine era quella, ma è già passata, appunto come un flash di quello che poteva essere e non è stato. Avevo pronosticato un 4-1 dando credito ai Cavs e al suo uomo di punta per una vittoria (almeno) casalinga, che non c’è stata. Qualcuno aveva storto il naso. Qualcuno era già salito sul carro dei vincitori della Eastern per glorificarne il gioco (ma quale???), la spettacolarità della sua stella, tutto quello che forzatamente veniva immaginato, autoconvincendosene, in contrapposizione ai noiosi Spurs. L’unico e inevitabile modo nella mente umana per esorcizzare una finale con Detroit, potenziale rivincita del 2005. Ora tutti giù dal carro? Per favore…
Ormai il marketing e l’importanza dell’immagine è dentro di noi, un morbo difficilmente estirpabile. Le preoccupazioni dell’Olympic Tower sono diventate le nostre, come se a noi importasse davvero o venisse in tasca qualcosa dal ritorno economico di un James in finale al posto della gang di Coach Saunders.
Eppure noi dovremmo occuparci di pallacanestro, quella che si gioca ad ogni latitudine dentro i 28 metri. E io credo che questo risultato finale abbia risarcito una volta per tutte chi ama il basket (da poco o da 25 anni come il sottoscritto), una rivincita che gli dei del gioco si sono presi, concedendo un po’ di fortuna in più, bisogna riconoscerlo, ai figli prediletti, che la buona sorte però se la sanno andare a cercare.
I Cavs sono ad un bivio: nel 2001 si disse che Iverson era finalmente riuscito a portare i suoi 76ers alla finale, facendo pure paura al colosso Lakers. Sarebbe stata nei pronostici la prima di una lunga serie, una serie che si sarebbe certamente conclusa con almeno un titolo. Ciò non è successo, e mi piange il cuore, come a molti di voi, al solo pensiero che 99 su 100, (ma anche 99,999999999999) AI chiuderà senza argenteria. L’impossibilità di affiancare al fuoriclasse col numero 3 un secondo violino, e un supporting cast all’altezza, le crisi di identità di Coach Larry Brown, la dipartita dell’uomo che teneva insieme i cocci, Pat Croce, sono alcuni dei motivi della distruzione, di quel (aridagli) che poteva essere e non è stato.
Ora: Cleveland vive una situazione apparentemente simile. La prima finale di una lunga serie, contando anche la giovanissima età di LeBron e la sua voglia di vincere a casa sua e non altrove, e un titolo che arriverà sicuramente col tempo, oppure no? I contratti ancora lunghi (3 anni) e onerosi di Hughes e Ilgauskas, l’inesistenza di un gruppo tecnicamente valido di giocatori a cui il buon LeBron possa passare la palla, come sa fare molto bene, minacciano tempesta. All’orizzonte un futuro incerto, non definito, e questo può voler dire che c’è ancora la possibilità di prendere una direzione piuttosto che un’altra, non per forza quella negativa delle due.
Coach Brown ha sbagliato una cosa sola: troppa riverenza nei confronti del maestro che come pronosticato non è riuscito a superare. Poi che si dica: doveva giocare quello, no quell’altro…beh vorrei vedere voi quando vi girate verso la vostra panchina (se siete allenatori come me conoscete la sensazione) e non trovate Steve Kerr, o Ginobili, o “Microwave” Johnson, gente che entra e quella cavolo di partita te la cambia! Avete investito tutto o quasi – sempre LBJ a parte – su Gooden e vi fa 3 falli a rimbalzo offensivo, non tiene nemmeno la nonna di Duncan in 1vs1, si rifugia in trattenute per la canotta di calcistica memoria. Avete Marshall che d’esperienza ne ha, ma non mette più un tiro (sarebbe visto come uno specialista del fondamentale, pagato e presente per questo) neanche nel canestrino della cameretta.
Il GM Ferry avrà il suo bel lavoro da fare, perchè una squadra, nell’ottica NBA e delle limitazioni salariali dello sport americano, la si costruisce prima alla scrivania e al telefono, poi in palestra.
Anche note positive, perchè la stagione non sembri ridursi solo alla serie finale (sarebbe per lo meno ingiusto): Ilgauskas ha fatto il suo, troppo in panchina quando serviva in campo – vedi ultimo quarto di gara 4 con i buoi ancora incerti se scappare o meno di fronte alla porta spalancata della stalla. Damon Jones avrebbe dovuto avere più minuti, perchè uno tecnicamente (e non solo) sfacciato come lui in campo può servire, soprattutto quando il tuo gioco si riduce a “palla a LeBron e gli altri intorno all’arco in attesa di illuminazione divina”. Bene Gibson, ma Snow per quanto battezzabile in attacco è tutt’altra merce, se poi a difesa del canestro te la devi vedere con “Speedy Gonzales” Parker!
Oltre a questo non si possono muovere critiche maggiori a Coach Brown, che ha inculcato nei suoi una mentalità difensiva che almeno dal punto di vista individuale comincia a funzionare. A parte un caso…
Uso LBJ da “ponte” per passare all’altra sponda, quella che festeggerà per la 4^ volta sul Riverwalk. Un conto è avere la propria stella di riferimento (Duncan, come in passato Bird, MJ, Kobe) che per prima fa della difesa, dell’applicazione nella propria metà campo, dell’intelligenza nel leggere cosa fa l’attacco, nel sapere quando raddoppiare o no, nel – molto più semplicemente – piegare le gambe e fare andare i piedi, un conto è avere, sempre da parte del proprio fenomeno, l’atteggiamento opposto. E qui, a mio avviso, al di là di tutti i miglioramenti che James dovrà giocoforza fare sulla continuità del suo tiro da fuori e su altri aspetti del suo gioco, la storia può essere aiutata nella scelta a quel famoso bivio di cui sopra, per il singolo campione come per la propria franchigia.
Duncan è stato brillantemente definito un computer. Lo è. La sua intelligenza applicata al gioco della pallacanestro fa venir meno qualsiasi convinzione in questo senso su tanti playmakers, universalmente riconosciuti proprio per questa caratteristica, al pari dei colleghi quarterback del football. Ha i suoi difetti, in lunetta, nell’uso della mano sinistra quando si gira verso il fondo (meglio quando da destra va col semigancio da centro area), ma amici miei, stiamo già parlando di uno dei 10 giocatori più forti (unendo capacità+rendimento+vittorie) di tutti i tempi, probabilmente la miglior ala grande (per me di sicuro) della storia del gioco, se non avesse queste piccole mancanze…allora sarebbe davvero un computer, un robot con poco, pochissimo di umano. Anche Shaq se vogliamo, giustamente definitosi il giocatore più dominante di sempre, aveva il tallone d’Achille, come tutti gli eroi passati e contemporanei, vedi i tiri liberi. Altrimenti non staremmo parlando anche nel suo caso di “soli” (mi vien da ridere) 4 anelli, e di un inserimento nel ristrettissimo club a fianco di Russel, Wilt e Jabbar, grandissimi che verrebbero staccati come ai bei tempi dell’immenso Pantani su quelle salite francesi.
Siamo al suo 4° titolo di campione NBA e io se fossi in voi non giurerei sulla possibilità che sia anche l’ultimo (e a proposito di flash che rimangono nella memoria: tocca tre volte la palla tenendola viva a rimbalzo offensivo e poi finisce nelle prime file tra gli spettatori…dobbiamo aggiungere altro sulla voglia di vincere di quest’uomo?), ma è il primo vinto senza l’accoppiata con il titolo di MVP. Questo per un motivo molto semplice, definibile con 2 parole: Tony Parker!
Se Auerbach (R.I.P.) non si fosse innamorato di una guardia da UNC che ora devasta le retine italiane, tale Jo’ Forte, questo francesino vestirebbe con forse non identiche sorti – non identiche a quelle attuali intendo – la maglia verde col trifoglio.
Invece il destino, camuffato da R.C.Bufford e l’inizialmente (ma va???) scettico Popovich, l’ha portato in Texas. Agli Europei in Turchia non vedeva nemmeno il campo, con i transalpini, chi avrebbe scommesso su di lui? Dai fate i bravi! Ok Ginobili, granslammista con la Virtus Bologna, ma questo? Come hanno fatto? E soprattutto: come fa lui?!? E’ incredibile che sia questo tipo di giocatore, a quell’altezza e a quel peso. Razzi con la palla in mano nella pallacanestro ne abbiamo visti molti, ma con la stessa facilità di concludere dentro l’area…naaa!
Ora arriva anche il tiro da fuori, e allora: gloria al meritatissimo MVP di queste Finals 2007, dedicandogli la spassosa e azzeccata presentazione del Buffa pre-gara4: come in un film di Elvis, dopo le controversie iniziali, arriva all’autodromo, vince la corsa e se ne va con la meglio pupa! Chapeau (azzeccato come non mai in questo caso).
Per concludere – perchè facciamocene una ragione, anche per quest’anno l’NBA è finita, finita dopo 4 gare di serie finale, e non di più, nemmeno una in più…sempre contenti gli “amanti” del gioco che non volevano in finale i Pistons??? – non si può non citare altri 2 giocatori, definiti “uomini fantastici” da chi li conosce (e non possiamo essere sicuramente noi a far nostra questa affermazione, quindi…ci fidiamo!): Robert “7 anelli” Horry e Michael Finley. Il primo da circa 15 anni sembra annoiato come un gatto sulla poltrona nell’uggiosa atmosfera di un autunno di Carducci, così da Ottobre ad Aprile, poi…poi scatta qualcosa, quel qualcosa che lo fa diventare un vincente. Entra e – lui sì – ti cambia le partite, e non sempre col tiro che l’ha fatto diventare “BIG SHOT ROB”, spesso con la difesa, le giocate d’intelligenza tecnica e tattica, quelle famose cose che non vanno sullo scout della partita, ma contano, cavolo se contano!
Finley al quale tutti i compagni hanno dedicato la vittoria in una commuovente, da questo punto di vista, premiazione finale, ha saputo lasciar da parte l’orgoglio di un campione, uno che per tanti anni ha preso (segnandoli) i tiri decisivi della propria squadra, per rimanere in Texas, ma sponda Spurs, e la scelta l’ha premiato. Questa stessa scelta è stata fatta in passato da giocatori che solo tardivamente hanno “annusato” l’opportunità, quando una notte si sono svegliati nel sudore del proprio incubo, e guardandosi le dita delle mani non hanno trovato nulla di luccicante, Malone su tutti. Michael Finley, dall’altra notte, non ha più paura di questi fantasmi.