Dite la verità: pensavate che vi tirassi il solito pistolotto su Miami e i suoi Big Three (per altro: gran periodo a South Beach, eh? Del resto quando manca Bosh …).
E invece no. Oggi parliamo di Portland e di Oklahoma, e in generale della difficoltà (impossibilità?) di costruire una squadra vincente da zero.
E’ chiaro che non voglio nemmeno prendere in considerazione società storicamente incapaci di costruire alcunché. Pensare che qualcosa possa cambiare e management palesemente incapaci come quelli di NJ, Minneapolis, Toronto, Phila (almeno da una ventina di anni a questa parte) possano “inventarsi” una squadra vincente è un’eresia.
Il discorso dei Clips è diverso. A differenza delle citate sopra, la squadra più perdente della lega è tale per precisa scelta, non per incapacità. L’obiettivo del proprietario (il mitico Donald Sterling) non è quello di vincere un titolo o rendere la squadra competitiva, ma massimizzare il suo guadagno pur investendo il minimo sindacale. In questo è abbondantemente il numero uno della lega. E se la ride scrutando l’orizzonte in cerca del secondo.
Prendiamo invece ad esempio i primi della classe, ovvero le dirigenze figlie più o meno legittime della franchigia unanimemente meglio gestita della lega (gli Spurs), appunto Portland e OKC.
Essere una dirigenza eccezionale vuol dire prima di tutto scegliere bene al draft: sia quando hai le prime scelte (meglio Durant o Westbrook che Olowakandy e Milicich, o Kwame Brown), che quando invece devi scegliere al secondo giro. Scout affidabili e attenti alle piccole cose, con la valigia appresso per conoscere bene anche giocatori sconosciuti di altre parti di mondo, in grado di valutare non solo il potenziale assoluto del giocatore, ma anche la possibilità di resa all’interno del sistema della squadra.
Sistema, già. L’NBA è una lega di giocatori, non di allenatori e squadre (come invece è ad esempio l’NCAA). I giocatori, o meglio le Star, decidono cosa fare, e se non rendono come sperato tipicamente si taglia il coach, se non basta si taglia il GM, e solo alla fine ci si pone il problema di scambiare il giocatore.
Nelle franchigie sanantoniane (ma anche a Utah, per esempio) invece è esattamente il contrario. La dirigenza, in accordo con l’allenatore decide il sistema (che tipicamente è difensivo, di matrice in qualche modo browniana), i giocatori vengono scelti sulla base della loro presunta efficacia nel sistema stesso, ma soprattutto è chiaro a tutti che il Sistema NON è in discussione. Ti piace? Bene. Non ti piace? Sei già in partenza per altra destinazione. Questo tipo di approccio dà all’allenatore, indipendentemente dalla bontà intrinseca del sistema stesso, un vantaggio enorme rispetto agli altri coach: il progetto è chiaro, i giocatori adatti, e i rapporti di forza definiti.
Pensate ad esempio ad Atlanta: un accumulo di gente di primo livello (tutte scelte molto alte), che sono però mal assemblate (un mare di swing men intorno ai 2m dalle caratteristiche simili e dal carattere dubbio) e che soprattutto non si capisce che tipo di basket vogliano giocare. Alternano periodi da (basso livello dei) playoffs a periodi da lotteria, senza però nessun progetto e nessuna possibilità di fare mai il grande salto.
A OKC invece è tutto diverso. Il futuro è loro, sono già oggi una potenza della western, hanno portato i Lakers a gara 6, hanno due All Stars come Durant e Westbrook, e una fila di giovani promettenti (Green, Harden, Ibaka, Sefolosha, Maynor), mischiati a un po’ di veterani solidi. Non vinceranno il titolo quest’anno, ma fra un anno o due chi li ferma?
Volete saperlo? Il CAP.
Saliamo sulla macchina del tempo e torniamo a due anni fa. Prendiamo una squadra di cui allora si pensavano esattamente le stesse cose: i Trail Blazers. Squadra giovane, con alcuni contratti albatros in scadenza, quindi sostanzialmente tanti soldi da spendere, tre futuri all star (Oden, Roy e Alridge), qualche specialista veterano nel pieno della carriera (Blake e Prizbilla), e soprattutto un mare di altri talenti in erba (Batum, Webster, Rodriguez, Bayless, Fernandez, Frye, Outlaw) da poter in parte far crescere, e in parte scambiare sul mercato per arrivare a quella stella che li rendesse subito competitivi per il gran ballo.
Il futuro è loro. E invece no.
Certo, ci sono stati gli infortuni (credo che l’infortunio anche all’ALLENATORE sia record di sfiga ogni epoca), e gli scambi che non si è riusciti a concretizzare, però in soli due anni il sogno Trailblazers si è sostanzialmente infranto, e se 2 anni fa si diceva: non è un problema di se, ma di quando vinceranno, oggi direi che c’è ampio materiale per gli scettici. E’ successo più o meno quello che capitò anni fa (e mi si perdoni la similitudine forse un po’ tecnica) a Drive – In.
Si parlo proprio della trasmissione comica di mediaset degli anni 80. Per chi non sapesse di cosa parlo, o volesse sapere il tipo di successo e impatto che ha avuto all’epoca, esiste Wikipedia.
In breve si trattava di un programma contenitore che metteva insieme, sotto la guida di vecchi marpioni come D’angelo e Beruschi e dell’astro nascente Ezio Greggio, una fila di giovani comici spesso semisconosciuti. E’ stato un successo senza precedenti (cerco, anche l’introduzione di procaci ragazze seminude ha aiutato…), e il programma è stato bissato per diverse stagioni. Sapete perché è finito? Perché i giovani comici sconosciuti, diventando famosi, volevano sempre più soldi, e il programma sarebbe costato troppo.
Lo stesso accade con i giovani talenti: finchè sono giovani e sconosciuti, puoi averne in squadra tanti, perché non costano niente. Quando però si palesa il loro potenziale, o riesci a trovare l’acquirente al momento giusto, o se no ti resta in casa un ottimo giocatore, che sai non diventerà mai una stella, ma che vuole sempre più soldi, tu non puoi darglieli per non superare il cap, e finisce che devi liberartene quasi a gratis (pensate ad esempio a Utah con Maynor, regalato di fatto ai Thunder). A questo si aggiunga che, oltre al problema di costi, c’è quello dei minuti: Fernandez da rookie accetta di giocarti 10-15 minuti a sera. Al quarto anno, se vede che non ha minuti, passa il tempo a lamentarsi e chiedere di potersene andare.
E così facendo arrivi (ribadisco, in soli 2 anni) alla Portland di oggi: squadra solida, quadrata, rispettabile, ma con ogni probabilità (anche immaginandosi un viaggio a Lourdes particolarmente efficace per Oden e Roy) non più una contender.
Macchina del tempo e torniamo ai Blazers di oggi, ovvero i Thunder. Roy è un giocatore meraviglioso, ma obiettivamente non è Durant (che mi sembra di categoria Jordan, Kobe, Wade, Duncan, Magic, Bird, …), quindi i Thunder hanno qualcosa in più rispetto a Portland. Però la situazione complessiva appare molto simile.
Insomma, come si dice in matematica, i Thunder hanno quasi tutte le condizioni NECESSARIE per vincere un titolo, ma non è assolutamente detto che queste siano SUFFICIENTI. Il prossimo anno sarà fondamentale da questo punto di vista. Questa infatti è la finestra temporale per fare tutte le mosse giuste per trasformare OKC in una contender. Pur sapendo però che basta sbagliare anche poco, o un infortunio importante di troppo per compromettere irrimediabilmente il progetto fin qui eccezionale, che a portato la franchigia azzerata degli ex Sonics ad essere una delle storie più belle di questa stagione.
Vae Victis
Carlo Torriani