Ho cominciato questo pezzo almeno 6 volte negli ultimi 3 anni. Pezzo il cui contenuto doveva essere una celebrazione di quanto fatto negli ultimi 5 anni da quest’ultima incarnazione dei biancoverdi, basata sul concetto dei Big3 (Pierce, Allen e Garnett), con l’amichevole partecipazione di Rondo, e Rivers assiso in panca. Tutte le volte però che stavo per intonare il De Profundis di questo gruppo, o il cuore che batte per Beantown, o qualche movimento di mercato azzeccato, o qualche incredibile e inaspettata prova dei nostri mi costringevano a salvare in bozza il pezzo, nella speranza più o meno assecondabile che in fondo questi C’s potessero farsi ancora un’ultima cavalcata verso il titolo. In 5 anni, sempre classificati per i playoffs, due passaggi del primo turno, 1 gita alle finali di conference, e due viaggi fino alle finals, uno terminato tristemente nell’ultimo quarto di gara 7, l’altro vinto contro i rivali di sempre di LA. Il tutto con un nucleo di giocatori molto prossimi al fine carriera, e con una concentrazioni di infortuni che, sul lungo periodo, trovano un avversario competente solo negli Sfigablazers di Portland. Quest’anno, complici un mercato estivo frizzante e una Chicago orfana di Derrick Rose, sembrava fosse l’anno buono per tentare per l’ultima volta la sorte e provare a tornare almeno in finale di conference. L’inizio è stato rivoltante, per effort e risultati, ma nel magico est dove tutto è possibile (e non è necessariamente una cosa bella…) i Celtics sembravano comunque ancora candidati educati a giocarsela fino in fondo.
Poi la doccia fredda, in un paio d’ore e qualche telefonata arriva del tutto inattesa la fine della stagione in corso, delle possibilità di questo gruppo di tornare mai in finale, e forse dell’esistenza stessa di questo gruppo da oggi in avanti. Rajon Rondo si è lesionato il legamento del ginocchio, ed è fuori per la stagione. Non stava giocando bene, e a dispetto di cifre in bilico tra il rispettabile e il libro dei record, chi l’ha visto giocare non può non aver pensato che Auerbach gli avrebbe spento volentieri il sigaro in mezzo agli occhi. Ma Rondo è Rondo, ai PO cambia tutto, e il numero 9 è quell’addizione di follia e genio che può tenere accesa la speranza (pur tenue) di battere gli Heat in una serie. Senza di lui, Pierce e Garnett col loro immenso orgoglio e la difesa di squadra dei C’s possono pensare di vincere i rossoneri in singola gara (come fatto per altro l’altra sera), ma di certo non di batterli 4 volte su 7 tentativi. Sempre che lì si arrivi, naturalmente, cosa che oggi appare piuttosto improbabile.
E allora è normale che nella mente di Danny Ainge si affacci il tarlo sul futuro di questa squadra: quest’anno è perso, l’anno prossimo si spera di riavere Rondo a pieno servizio (l’infortunio, pur essendo uno dei più gravi tra quelli che possono toccare a uno sportivo, è meno grave di quelli occorsi a Rose, Rubio e Champert), ma potrebbe aver bisogno di un altro anno per tornare al meglio; Pierce l’anno prossimo avrà 36 anni e sarà in scadenza di contratto (solo 4mln garantiti). Garnett, pur avendo ancora 2 anni di contratto davanti, avrà 37 anni, e giova ricordare che, avendo saltato il college, sono già 18 anni che per 100 sere l’anno scende in campo a prenderle da gente che lo odia (a ragione, visto la simpatia dispensata con generesità dall’amabile bigliettone). Il cap non permette grandi rivoluzioni. Come dire che le speranze di questi Celtics di vincere (o almeno competere) l’anno prossimo o quello dopo sono prossime allo 0. Si potrebbe quindi pensare di chiudere (pur nella più ignominiosa delle maniere) l’era dei Big 3 e ricominciare. Ma Garnett, a quelle cifre, quegli anni, e quella durata di contratto non se lo piglia nessuno. L’unico asset realmente scambiabile (sia per il valore del giocatore in sè, sia per il contratto in scadenza il prossimo anno) è Paul Pierce.
Squadre che potrebbero essere interessate ce ne sarebbero. In fondo si tratta di un veterano, un vincente, uno che ancora oggi (anche se con un’autonomia limitata in termini di minuti) si sa creare il tiro da solo, è letale da fuori e sa penetrare, insomma, uno che sposta a livello di championship. Mi viene in mente Portland, o Golden State, perfino Houston, che potrebbero non disdegnare. Oppure, il fit perfetto sarebbe Memphis. Due settimane fa discutevamo di come la proprietà degli orsacchiotti fosse alla disperata ricerca di un modo per non andare in Luxury tax il prossimo anno. L’ipotesi più gettonata sembrava il privarsi di Rudy Gay, grande talento che però non ha mai convinto fino in fondo. Alla fine hanno optato per liberarsi di alcuni giocatori dalla panchina (Ellington e Speights su tutti), il cui salario complessivo è pari all’importo di sforatura del cap. Ma la fiducia verso la loro ala piccola titolare comunque vacilla. Uno scambio con Pierce permetterebbe, dal punto di vista tecnico, di aggiungere un vincente, esperto di clima PO, go to guy per i possessi importanti, e soprattutto il penetratore che tanto manca ai Grizzlies (Gay è sostanzialmente un giocatore da jumpshot), senza perdere in pericolosità nel tiro da fuori. E il tutto limitando il progetto (e l’impegno economico) a due stagioni, ovvero il top della condizione fisica e tecnica di questo gruppo. A Boston invece avrebbero avuto un giocatore giovane e futuribile (per quanto un attimino caro!), da mettere insieme a Rondo, Bradley, Green e Sullinger per formare una squadra almeno da PO per i prossimi 5 anni.
Al di là di queste fanta trade, è chiaro che la testa dice: via Pierce e avanti con la ricostruzione.
Il cuore però indica che se Ainge si azzarda a vendere il Capitano, cuore e volto dei C’s negli ultimi 15 anni, probabilmente uno dei primi 5 Celtics della storia per valore, gli conviene non farsi vedere in giro nei pressi del Garden, o rischia sensibilmente per la sua incolumità.
Staremo a vedere, ma si tratta più che altro di un formalismo.
Il dato oggettivo è che oggi è finita. Per davvero.
E la cosa principale che mi sento di dire è: GRAZIE.
Perfino a Giuda Allen: grazie per questi 5 anni, che hanno fatto scoprire anche a chi ha meno di 30 anni che cosa significhe essere un Celtic.
Giusto per chiudere nella tradizionale maniera cinica (troppo saccarosio non si addice a questa rubrica): se il problema dei Celtics è quello di rimpiazzare il playmaker, di trovare qualcuno che prediliga il passaggio alla soluzione personale, e che sia capace di andare in doppia cifra di assistenze a ogni gara, potrebbe esserci un candidato tanto perfetto quanto inaspettato: pare che ultimamente si sia fatto apprezzare in quel di LA, sponda Lakers, un giocatorino non proprio di primo pelo, disposto a mettersi al servizio della squadra sacrificando i propri tiri pur di far contenti tutti, difensore arcigno, e che anche impegnandosi non riesca a fare meno di 14 assists a partita. Il suo nome? Mi sembra sia quello di una … bistecca!
Vae Victis