La tre giorni di basket andata in scena al PalaDesio ha incoronato il Banco di Sardegna Sassari, che per la seconda stagione consecutiva fa sua la Coppa Italia: un back to back forse insperato alla vigilia, ma di certo non frutto del caso, che può lanciare diversi spunti di riflessione sia in merito al successo della truppa di coach Meo Sacchetti che sulla kermesse delle Final Eight nel suo insieme. Impossibile, in questo senso, non partire proprio dalla finale, un ultimo atto che ha messo di fronte due compagini quasi agli antipodi: la favorita d’obbligo, quella EA7 Emporio Armani Milano dominatrice della Serie A e chiamata a riportare nella sua bacheca un trofeo latitante da troppo tempo, di fronte ad una Dinamo più umile ma più reattiva nell’entrare nello spirito della gara secca. Ne è uscito fuori un match oggettivamente accattivante per chi ama i punteggi alti, soprattutto grazie ad un Banco di Sardegna capace di chiudere i primi 10′ già a quota 33 e di andare incontro ad una serata di grazia al tiro da fuori, specialmente nella prima metà di gara.
Il titolo di MVP del torneo è andato a David Logan, riconoscimento giustissimo se consideriamo che il merito dell’allungo sassarese nei primi 2 quarti – che Milano è poi riuscita sì a colmare, ma senza mai dare la reale impressione di poter mettere la freccia e sorpassare – è stato principalmente suo, ma sarebbe stato più bello poter dividere questo premio in più parti e “spezzettarlo” tra l’ex-Maccabi, Jerome Dyson e Rakim Sanders. 72 punti in tre, oltre il 70% dei 101 messi a referto dal Banco; numeri inequivocabili che dicono quanto, di contro, all’Olimpia siano venuti meno molti dei suoi singoli, molte delle frecce all’arco di coach Banchi. Mentre l’ultimo a mollare era Nicolò Melli, è completamente mancato un Gentile mai entrato in partita e altri – su tutti un censurabile Kleiza – si sono abbandonati al nervosismo e alla rabbia. Un roster può essere costruito da gente che sa cosa vuol dire vincere, ma chi sa (o vuole) vincere deve anche saper perdere, e questa è una dote che, evidentemente, o è innata o non si impara neanche dopo anni di attività.
Fatto sta che per l’Olimpia la “maledizione” della Coppa nazionale continua. Aver ritrovato la finale dopo 19 anni non mitigherà di certo l’amarezza per il terzo obiettivo stagionale – dopo Supercoppa ed Eurolega – che sfuma: tutte le energie restano ora per il campionato, il primo posto in regular season sembra in cassaforte, ma in vista dei playoff viene lanciato un messaggio chiaro. Per arrivare in fondo serve un gruppo vero, coeso, che faccia fronte alle difficoltà e a tutte le possibili variabili date dalle partite senza un domani. L’EA7 della scorsa stagione, quando si ritrovò con le spalle al muro in gara-6 di finale scudetto a Siena seppe – anche con la giusta dose di fortuna che aiuta gli audaci – reagire da grande e cucirsi poi il tricolore sul petto; questo gruppo è chiamato a fare altrettanto, a non disunirsi e non lasciarsi andare agli egoismi e ai nervi appena cambia il vento. Perché le avversarie sono agguerrite e la aspettano al varco. In primis questa Dinamo Sassari che, con in mano il terzo trofeo vinto in 12 mesi, raddrizza una annata finora altalenante.
Deludente in Europa e discontinuo in campionato, il Banco dimostra ancora una volta di sapersi esaltare quando c’è da giocarsi tutto in 40′, con lo spirito di un centometrista o di quei ciclisti specialisti delle “classiche”, piuttosto che delle grandi corse a tappe che ti fiaccano nel fisico e nell’anima se non hai la giusta resistenza. Negli anni cambiano gli interpreti (solo 3 i reduci della Coppa Italia 2014, di cui uno, capitan Vanuzzo, ormai ai margini delle rotazioni) ma non la filosofia. Chissà se gli ultimi mesi di questa stagione potranno, per i sardi, essere quelli dell’esame di maturità, l’occasione per dimostrare a tutto il basket italiano che la Dinamo merita un posto non soltanto tra le “grandi per un giorno”: ai playoff l’ardua sentenza. Cos’altro ha detto questa edizione delle Final Eight ormai già in archivio? Nel lotto delle squadre partecipanti, chi – oltre a Sassari – ne esce con maggiore vigore dopo aver fatto una più che discreta figura è certamente l’Enel Brindisi.
La compagine di Piero Bucchi è stata l’unica a sovvertire il pronostico della vigilia nei quarti di finale, sopravanzando con pieno merito una Umana Venezia calata alla distanza, e anche nella semifinale contro Milano i pugliesi se la sono giocata senza timore reverenziale; l’obiettivo dell’Enel – la caccia ad uno dei primi quattro posti in classifica, traguardo che sarebbe storico – è complicato “grazie” all’enorme concorrenza in tal senso, ma non è ancora impossibile. Nel limbo di chi esce da questa Coppa Italia senza infamia ma anche senza troppa lode c’è la Grissin Bon Reggio Emilia: va detto però che Cinciarini e compagni sono incappati in un tabellone complicatissimo, che li ha visti prima superare sul filo di lana la solita coriacea Trento, e poi fermarsi al cospetto di Sassari cedendo il passo soltanto nella ripresa. Poco c’era da attendersi invece da chi sembrava già alla vigilia designato al ruolo di comprimario: la Sidigas Avellino nei quarti contro Milano è però andata ad un soffio dal colpaccio da raccontare ai nipoti, per meriti propri e per demerito di un’EA7 in serata disgraziata, mentre nulla ha potuto Cremona contro Sassari. Per la Vanoli, reduce da un calo di forma e di risultati in campionato, un’esperienza comunque storica e da ricordare.
Un bilancio di questa tre giorni va in ogni caso fatto a 360 gradi, guardando anche al di fuori del basket giocato, e ciò che viene da chiedersi è innanzitutto se l’organizzazione della competizione sia da rivisitare e magari “svecchiare”. La formula delle Final Eight era quest’anno alla 16° edizione: non sono molte, eppure sembrano lontani i tempi in cui questo format rappresentava una novità attraente, in grado di calamitare attenzione di pubblico e media. Se, proprio per farci del male, volessimo fare raffronti con la Copa del Rey – tutte le più grandi città spagnole rappresentate, palazzo da diecimila posti sempre pieno – ne usciremmo bastonati a sangue. La novità, introdotta dall’anno scorso, di concentrare tutti i quarti di finale in un’unica giornata non solo non ha aggiunto nulla in termini di visibilità, ma anzi ha dato la mazzata definitiva alle presenze sugli spalti, che in maniera particolare nei primi due match del venerdì – sistemati in orari rivedibili – sono state deficitarie; e la scelta di Desio come sede ospitante è stato un altro autogol.
Lo è stato per le tre squadre del sud che hanno partecipato alla Coppa, tutte e tre con un pubblico competente, calorosissimo e numeroso, ma l’eccessiva distanza ha tarpato le ali alla potenziale presenza di più tifosi da Sassari, Brindisi e Avellino. Desio non ha però stimolato neanche l’afflusso più cospicuo delle tifoserie geograficamente molto più vicine, tranne che per la finale. E ha portato davvero pochi, per non dire pochissimi, spettatori “neutrali”. Insomma, se sul parquet il bilancio si può considerare più che sufficiente, per quanto riguarda il “contorno” – sul piano dell’immagine data dalla pallacanestro nostrana e sul suo appeal anche televisivo – c’è sempre tanto da lavorare: urgono nuove idee per far ritrovare attrattiva ad un trofeo che, altrimenti, rischierà di tornare a recitare un ruolo di secondo piano nel panorama cestistico nazionale.
Daniele Ciprari